Apertura della stagione di prosa, Silvio Orlando fa il pieno al Ventidio Basso di Ascoli Piceno

di Alceo Lucidi

ASCOLI PICENO – Pubblico delle grandi occasioni al Ventidio Basso per l’avvio della stagione di prosa 2017/2018, sabato 21 e domenica 22 ottobre, supportata ed organizzata come ogni anno dall’Amat.Di scena, per la prima ascolana, Silvio Orlando il quale, con la puntuale ed ineffabile regia di Armando Pugliese, ha interpretato, da par suo, una commedia amara e sottilmente ironica: Lacci (liberamente tratta dall’omonimo romanzo di Domenico Starnone, Einaudi, 2014).

Starnone dice di avere voluto fare del suo libro una composizione sinfonica, in cui agli acuti si alternano i piani, agli allegri (pochi), gli adagi e poi i timbri spessi e cupi. Insomma, di avere voluto dare all’andamento di una famiglia borghese lo spettro degli imprevedibili moti vitali che finiscono per sottenderla: tra speranze, cedimenti, amarezze, fallimenti che assumono le fattezze, inevitabilmente, di un dramma generazionale.

Perché la storia che si racconta – l’amore bello, poi contrastato, tradito, ripreso e, infine, sopportato, pur se con un fondo di invincibile affetto – tra Aldo (Silvio Orlando) e Wanda (una brillante e coinvolgente, per l’intensità della recitazione, Maria Laura Rondanini) è proprio questa e chiede di essere interpretata come l’unione di due compagni che attraversano la vita senza lasciarsene ferire troppo. In fondo, dice Aldo a Nadar – l’amico-inquilino a cui, a trent’anni di distanza, confessa il tradimento della moglie per una donna appena diciottenne e di cui l’interlocutore è già al corrente per averlo saputo da Wanda –: «il tempo non passa; il tempo ti rovina addosso e ti fa male».

Così basta una crepa in questo tempo famigliare, una smagliatura nella rete (il furto nella casa dei coniugi) per rammemorare un passato fatto di enigmi, fughe, paure, attese disilluse, sentimenti da ricostruire faticosamente.

Alle volte, ci suggerisce Starnone, e Pugliese lo afferma teatralmente con un décor borghese impeccabile, che d’improvviso sembra sfaldarsi sotto l’incalzare degli eventi, la convivenza famigliare può trasformarsi in insieme precostituito di ruoli e convenzioni consolidate dall’abitudine, in un steccato di rituali non più (o scarsamente) ravvivati dall’amore, che può portare a crolli minacciosi, ad improvvisi smarrimenti, alimentati anche dai complessi macrocosmi e meccanismi sociali nei quali – spesso –  viviamo costretti.

L’amore, come la fede, non è un dato costituito, un bene affermato una volta per tutte, ma, come molte, tante, cose, una conquista, un continuo ricominciamento, la straordinaria capacità, forse, di reinventare se stessi rispetto all’altro.

Aldo, da affermato autore televisivo che fa la spola tra Roma e Napoli, la sua città, ci (ri)prova. Dopo l’infatuazione (verso la bellissima Lidia, della quale conserva ancora le foto nel posto in cui la moglie non potrebbe arrivare, un cubo acquistato a Praga e odiato da Wanda), segue il rimorso per i due figli – Anna (Vanessa Scalera) e Sandro (Matteo Lucchini), appena adolescenti, abbandonati, assieme alla consorte, ad una vita di stenti e rinunce – e poi il tormentato riavvicinamento, fatto di alti e bassi, non concludibile in un (ri)ordine affettivo (che pure i due coniugi vorrebbero darsi).

A fine spettacolo, meditando sulla trama di tante fragilità umane e slanci sentimentali tarpati, si esce con un gusto amaro in bocca e la sensazione, fondata, di come riesca difficile rigenerare i rapporti umani e non perderli in un insieme di apparenze e formalità.

 

 

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