
SAN BENEDETTO – “Il portiere caduto alla difesa ultima vana, contro terra cela la faccia, a non vedere l’amara luce…”: inizia così la poesia “Goal” di Umberto Saba, forse la più popolare delle cinque scritte dal poeta triestino e dedicate al calcio (“Parole”, 1934). Quindi, cos’è un goal se non l’orgasmo per chi lo realizza e la disperazione per chi lo subisce? Ad ogni latitudine, è comunque l’apice massimo della goduria per il popolo del tifo: spettacolare, fortunoso, d’istinto, su calcio di rigore o anche con un’autorete, l’importante è che la palla finisca nella rete avversaria.
Ma non sempre ci si riesce, perché “Pallone entra quando Dio vuole”, come sentenziava il mitico Vujadin Boškov: senza coinvolgere il Padreterno, il Dio in questione è Eupalla, per dirla alla Gianni Brera, un’immaginaria divinità che protegge e ispira il gioco del calcio. Affermava il popolare giornalista sportivo che Eupalla “è la dea che presiede alle vicende del calcio ma, soprattutto, del bel gioco; è una divinità benevola che assiste pazientemente alle goffe scarponerie dei bipedi”.
Il calcio… È stato definito lo sport più bello del mondo; non si sa in base a quali criteri, perché ci sono altre discipline sportive altrettanto spettacolari. Comunque, in Italia è sicuramente il più praticato, il più diffuso (solo per suo merito possono coesistere qui da noi quattro quotidiani sportivi!): fin dalla tenera età, infatti, i bambini vengono indotti, per non dire obbligati, alla sua pratica.
Si dice anche che sia un gioco e tale dovrebbe rimanere, almeno nell’età adolescenziale; basta andare, però, a vedere una qualsiasi partita di bambini per capire quanto sia falsa un’affermazione del genere: tutti sono convinti di avere in casa il nuovo Totti (o Baggio, Del Piero, Maldini… fate voi, in base alle proprie “fedi” calcistiche) e si sentono autorizzati a tirare fuori il peggio che ognuno di noi ha nelle viscere, offendendo chiunque passi a qualche metro di distanza, arbitro, avversari, allenatori, dirigenti, persino qualche passero solitario capitato lì per caso in cerca di cibo…
Ogni tanto dovremmo fare, tutti, un esame di coscienza e rivedere il calcio con altri occhi. E per fare questo, ci viene in aiuto il teatro, con la sua magia e la sua poesia: il bellissimo spettacolo Goal 1986, portato recentemente in scena al Teatro Comunale di Campofilone da Stefano Tosoni con il preciso accompagnamento musicale di Lucio Matricardi, ci può aiutare a fare pace con noi stessi. In questo contesto si parla di calcio, ma quello praticato dai ragazzini tanti anni fa, quando soldi, sponsor, scommesse e diritti tv erano, forse, solo parole inserite in un vocabolario.
E, come afferma Tosoni nel preambolo iniziale, “(…) il calcio è un po’ come l’Esperanto, è una lingua universale: non chiede soldi per essere giocato, bastano uno spicchio di mondo, un pallone improvvisato e due pietre per segnare una porta… ed anche agli ultimi degli ultimi può regalare la sensazione di toccare il cielo con un dito. Che tu sia un bracciante, un emigrante, un poveraccio, puoi guadagnarti un angolo di paradiso ogni volta che entri in area, calci con tutta la forza che hai in corpo e vedi la palla partire tesa, le mani del portiere che si allungano a dismisura nel vano tentativo di intercettarla, la palla che passa e il petto che esplode in un grido che in ogni angolo del globo ha lo stesso identico significato… GOAL!”.
Il viaggio narrato a due voci, una umana (Stefano Tosoni, un passato nelle giovanili della Palmense) e l’altra strumentale (Lucio Matricardi, un passato gastronomico nella cucina della nonna), ci ha preso, coinvolto, emozionato, ci ha fatto tornare indietro nel tempo quando ogni pretesto ed ogni luogo erano buoni per dare due calci ad un pallone. Partite infinite che terminavano solo quando faceva buio; poi il rientro a casa, sporchi e madidi, sicuri della sgridata della mamma che ti aveva dato l’autorizzazione a giocare ma… senza sudare!
Onestamente, devo ancora trovare qualcuno che ci sia riuscito… Quello raccontato dai due bravi artisti fermani è il calcio che piace a noi: un calcio forse primitivo, ma costellato di figure e personaggi tanto epici quanto comici, uno spaccato di quella provincia italiana che ha sempre qualche storia poetica da raccontare, che sa come affascinarci, divertirci e commuoverci.
Qualcuno ha affermato che il muscolo più importante di un calciatore non sono né le gambe, né i polmoni, ma il cuore, inteso – soprattutto – come passione per quello che si fa; lo stesso cuore che Stefano Tosoni ed il maestro Lucio Matricardi hanno messo sul palco, regalandoci novanta minuti di pura magia, quella stessa magia che a volte ti fa credere che “due più due, a volte, può anche fare cinque”!
Michele Rossi
Testo © dell’Autore e dell’Editore
Nell’immagine © degli artisti, Stefano Tosoni e Lucio Matricardi in scena