La dissertazione del prof. Sabino Cassese incanta la platea a Piceno d’Autore

di Alceo Lucidi

Terzo appuntamento al Piceno d’Autore, a Monteprandone, in compagnia del prof. Sabino Cassese per la presentazione del suo ultimo lavoro, La democrazia e i suoi limiti, edito da Mondadori, nel quadro della sezione monografica incentrata sull’evoluzione del diritto in Occidente. La serata è stata coordinata – come del resto tutti gli incontri – dall’avv. Silvio Venieri, presidente dell’Associazione “I luoghi della Scrittura, organizzatrice della rassegna e presentata dal segretario delle Camere Penali Italiane, l’avv. Francesco Petrelli.

Lunga, articolata, per tanti aspetti affascinante, la dissertazione del prof. Cassese – classe 1935, figlio dello storico Leopoldo Cassese, già Ministro della Funzione Pubblica dal 1993 al 1994 sotto il governo Ciampi, ex- giudice della Corte Costituzionale, professore emerito della Scuola Normale Superiore di Pisa, dove insegna Storia delle Istituzioni Politiche, con cattedre sparse tra Parigi, Sciences Po, la LUISS di Roma e la Càtolica Global School di Lisbona –, che ha ripercorso tutti gli ostacoli  e le aporie che, nel corso dei secoli, la democrazia, come forma di governo, ha corso (e continua ancora a correre!), sottoposta com’è ai vorticosi cambiamenti politici e sociali della storia.

Per farlo ha preso spunto da un racconto di fantascienza del grande scrittore Isaac Asimov dei primi anni Cinquanta, dove l’esito delle elezioni per la presidenza americana non è più determinato dal voto popolare (le elezioni o, come direbbe il professore, le “rinnovate” elezioni), ma da una macchina che un ignaro cittadino, scelto tra i tanti dal sistema di potere, dovrebbe far funzionare. Per dire di come le aberrazioni, le derive eversive, le contaminazione populistiche, gli arroccamenti nei privilegi di consolidate lobby possano nascondersi in ogni democrazia ritenuta tale (dal greco démos – popolo e kratòs – potere).

Nel corso della conferenza-dibattito e, più ancora, sul filo della pagine del libro, Cassese si chiede fino a che punto possa spingersi la democrazia e fino a che punto l’intervento del popolo nelle scelte politiche sia opportuno e salutare per la democrazia. Fino a che punto, insomma, non solo il popolo conti, ma quanto possano pesare le determinazioni popolari sul funzionamento della democrazia.

Considerata fondamentale nell’organizzazione di uno Stato, la sua fragilità era già accusata dai padri costituenti italiani che in effetti le fornirono una serie di pesi e contrappesi (checks and balances), di contropoteri, in grado di sorreggerla in funzione anti-totalitaria, per non ricadere, anche e soprattutto, negli errori di una democrazia negata a colpi di plebisciti (si veda il Fascismo). Essa, inoltre, non può essere tesa, attraverso le figure giuridiche, costituzionalmente previste, di iniziativa diretta (il referendum) a legiferare e controllare ogni singolo ambito della vita associata, ma deve sottostare spesso alla tecnocrazia o, comunque, ad un’”aristocrazia” del sapere (come per la sanità o l’edilizia pubblica dove a valere, in ultima istanza, deve essere non il principio della popolarità delle scelte operate ma, in ultima analisi, il criterio della competenza).

Eppure il pericolo che la democrazia potesse diventare la gestione del potere in mano a pochi era già presente, storicamente, in America all’alba della fondazione dello Stato federale, ed in uno scrittore-politologo di particolare sensibilità come Alexis de Tocqueville che nel suo volume, La democrazia in America (1835), parla – come citato da Cassese nel suo libro – di una “dittatura della democrazia” in mano alle élite. Così è stato dall’Antica Grecia fino alla contemporaneità (per l’Italia, il 1946, con il suffragio universale allargato alle donne), dove l’espressione democratica si legava all’esercizio di governo di precise oligarchie (di nascita, di censo, socio-professionali).

In due successivi capitoli – e più precisamente nel secondo e nel quinto – il prof. Cassese passa poi in rassegna il limiti “intrinseci” ed “estrinseci” della democrazia. I primi, legati alle burocrazie fagocitanti e all’imponente costruzione amministrativa statale. La dialettica politica, incardinata nello svolgimento del pubblico dibattito parlamentare con forze antagoniste ed in competizione, è frenata – o comunque spesso condizionata – dallo stato-apparato, con le sue regole, i meccanismi di attuazione delle leggi, le funzioni di controllo, le pletora delle dirigenze. I secondi, strettamente connessi alla globalizzazione e alle nuove forme di associazione, o collaborazione transfrontaliera, per affrontare la grande complessità dei problemi odierni (l’inquinamento atmosferico, il terrorismo globale, le nuove ondate migratorie ed il riconoscimento dei diritti delle minoranze).

Ad un sussidiarietà “verticale” (la devoluzione di poteri e risorse tra lo Stato centrale e gli enti locali) è andata sostituendosi, in maniera perentoria, una “orizzontale” tra nazioni cooperanti all’interno di uno stesso “condominio” (che per il prof. Cassese può essere l’Unione Europea, al pari dei consessi internazionali, come le Nazioni Unite, o di vertici tra capi di Stato o Governo, come il G7 o G20).

Quanto poi alla partecipazione democratica (un vero e proprio deficit), l’autore, sollecitato dal proprio interlocutore, l’avv. Petrelli, non vede il pericolo di una crisi irreversibile, pur denunciando con forza un progressivo vuoto di credibilità maturato dalla massa dei rappresentati nei confronti dell’agire dei rappresentanti-delegati. É la sconfitta della politica che, come corpo intermedio, non riesce più ad intercettare e interpretare i bisogni della cittadinanza (soprattutto nel nostro paese), ad ulteriore dimostrazione che la democrazia non sempre proviene dal basso.

I dati parlano chiaro, e sono drammatici: dalla metà degli anni Ottanta ad oggi l’affluenza alle urne si è ridotta da oltre l’80% a poco meno del 60; il referendum sul disegno di legge di riforma costituzionale dello scorso anno è stato votato da circa un terzo della popolazione (con alti tassi astensionismo, un partito nel partito); le politiche (come linee direttrici ed elementi di elaborazione di programmi di sviluppo del paese) finiscono vittima della stessa politica (come gestione separata ed autoreferenziale del potere di rappresentanza).

La lista sarebbe lunga. Ma il coraggio delle idee e la speranza di cambiamento, che la stessa classe politica è chiamata ad esprimere, dovrebbero prevalere sullo sconforto generalizzato. Ne va della nostra dignità di cittadini e di quella di tutti quegli immigrati (circa 5 milioni in Italia) che, pur dovendo rispondere a ben precisi doveri in qualità di contribuenti, non godono degli stessi diritti civili.

 

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