di Tonino Armata (presidente onorario associazione Città dei Bambini)
Egregio direttore,
Stamattina sono (ri)tornato sul tetto sopra l’undicesimo piano del mio palazzo a guardare San Benedetto con il suo bellissimo lungomare. Il sole sorgeva su un bel mare colore turchese arato dal vento. Erano anni che non vivevo una simile bellezza. Le palme respiravano, gioivano del giusto tempo sabbatico. E lì mi sono chiesto: saprò tornare alla normalità? Oppure è la normalità il problema? E se tutto tornasse come prima, anzi peggio, con libertà e democrazia già morte in un golpe silenzioso, nell’indifferenza di un popolo recluso e sotto anestesia?
Non potevo rassegarmi all’idea di poter ripensare, fra qualche mese, a questa reclusione come a uno dei momenti più felici della vita. Già mi vedevo, invecchiato, a dire a un amico: ti ricordi, che bei tempi quando facevamo il pane in casa e il trinciato di pomodori secchi, quando ci si parlava dai balconi, l’agenda era vuota di appuntamenti inutili e c’era tempo per raccontare fiabe ai nipotini lontani?
Oppure: oh cara, che giorni erano quelli, in cui ci si confrontava sui grandi temi in uno scambio di lettere vibranti tra i quattro angoli della Terra! Quel mondo senza smog, senza caselli, senza check-in, quando ci leggevamo storie ad alta voce, io prendevo appunti a notte fonda con la lampada frontale e poi mi alzavo al richiamo del merlo…
Guardavo il primo sole planare sulla città e il mio istinto si rifiutava di confinare nel mito la primavera del 2020. Contavo ancora, testardo, su un nuovo inizio. Ma l’angelo nero già mi sussurrava: svegliati ragazzo, la ricreazione è finita. Non vedi? Oltre i bollettini medici, oltre la protezione civile, le mascherine e i guanti c’è solo il vuoto; al comando non c’è nessun pilota; e presto tutti ci riabitueremo al rumore, ai gas, all’indifferenza, alla burocrazia soffocante, alla brutalità del saccheggio, al consumo, alle ronde, al sospetto, alle ammucchiate e allo stato di emergenza permanente.
Uno dei vantaggi della vecchiezza è sapere che la libertà è effimera, e quindi saper approfittare fino in fondo dei varchi in cui si manifesta. Ho scritto alcune cose su come vivere al tempo del coronavirus distillandone ogni sillaba come gioia e privilegio, ma anche con la certezza che tutto poteva finire e che un giorno sarei tornato al mio chiostro senza problemi. Già alcuni anni fa mi ero dato alla macchia, deciso a non scrivere più per un quotidiano online.
Troppi giri d’aria per il mio carattere. E poi non mi sono sentito a mio agio come quando lavoravo con la responsabilità di documentarista a Panorama (figura allora presente a Newsweek, Spiegel e Panorama) diretto da Lamberto Sechi, dal motto: “I fatti scissi dalle opinioni”, il quale, allora non era la voce dal padrone; ma, con l’Espresso rappresentava la voce del popolo di sinistra capace di reagire rapidamente ai fatti. A 60 anni, in pensione, i libri erano ormai il centro della mia vita.
Ora se ne va aprile, un mese dolce, che sa anche riderti in faccia. Con esso non se ne va l’emergenza, e anche il senso di questa mia quarantena piena di pensieri, speranze e illusioni. Ieri sera con ritardo ho acceso una candela per il 25 aprile e la nostra bistrattata Costituzione. Avevo visto metà del parlamento restar seduto al ricordo della Resistenza e avevo provato nausea.
Oggi Dante mi torna alle labbra «Ahi serva Italia di dolore ostello / nave senza nocchiero in gran tempesta / non donna di provincie, ma bordello» – e mi chiedo dove andrà a finire la bella energia espressa dalla parte migliore del Paese in questi giorni irripetibili. Dialoghi ricchi di speranza, che ho raccolto sotto forma di appunti, con la gioventù d’Europa.
I ragazzi della generazione Erasmus, cresciuti senza confini, che abbiamo fregato tre volte, prima con lo scoppio della bolla finanziaria del 2008, poi con l’emergenza terrorismo e ora col coprifuoco da Covid 19. Tre guerre che li hanno spinti ai margini di un mondo sempre più chiuso e rassegnato a perdere libertà civili; pagati meno di quanto si può incassare oggi col contributo Covid ai senza lavoro.
In questi 45 giorni ho partecipato a bei dibattiti online, scoprendo di avere davanti giovani capaci di rileggere la Resistenza in modo nuovo: come rifiuto dei vecchi equilibri e progetto di un mondo più frugale, verde, maturo, onesto. Qualcosa capace di rilanciare insieme la crescita, la solidarietà e l’ordine, i tre pilastri della comunità.
Mio nipote, recluso in casa, mi spiega che il petrolio non lo vuole più nessuno, e che oggi ti pagano per non comprarlo. Ormai il capitale punta trilioni di dollari sulle società smart. I vecchi pachidermi sono alla canna del gas, se hanno paura di una bambina come Greta, e magari si aggrappano ai Putin, ai Trump, ai cinesi, persino ai libici, gente che ricatta l’Europa coi profughi, o la indeboliscono con quinte colonne sovraniste nella politica e nell’informazione.
Questo mentre in Polonia e Ungheria si va allo smantellamento della democrazia con la scusa del virus. E ovunque – parole di Judith Denkmayr e Sofia Nerbrand – la società aperta subisce attacchi, mentre i più poveri diventano ancora più poveri. Scenari orwelliani. Ci sarà pure una scialuppa per raccogliere questa gioventù che sogna il ritorno all’agorà, segno distintivo dell’Europa.
Berengère Chauffeté, paesaggista francese a Berlino: «Torniamo alla terra, ma uscendo dall’approccio utilitaristico. La natura non è solo risorsa, è un partner». Lucia Pantone, da Tricarico in Basilicata: «la vigna esige di essere piantata anche se attorno c’è ancora morte e distruzione. È questa la durissima prova che il trauma esige e che non si potrà rinviare».
Niccolò Galli, banca di investimento a Zurigo: «C’è un vuoto politico da riempire, mancano statisti in grado di far capire ai paesi ricchi che ci rimettono anche loro, se i meno ricchi non risorgono». Marco Magini, specialista in environmental markets a Londra usa parole forti: «Questa lezione ci è servita a capire che l’uomo prospera solo nell’ambiente e che nel fronte di coloro che fomentano l’odio per Greta si è coalizzato il peggio di ciò che ci minaccia». E ancora: «Brexit è un segnale di insoddisfazione per un’Europa che resta fusione fredda e non diventa patria».
Tu, per esempio, Aleksandra, figlia della Serbia profonda, che sei rimasta muta fino a quando, a cinque anni, non hai incontrato un violino che ti ha sbloccato le corde vocali. E tu, Vasko, clarinetto di Macedonia, che ci incantavi con arcane melodie risalenti forse ai tempi di Alessandro il Grande. E tu Anastasya, che per raggiungerci con la tua viola ti sei fatta due giorni e mezzo di autobus da Kiev.
O tu, montanaro Johannes, che appena mollavi le percussioni ci commuovevi con romanze austriache alla fisarmonica. Per non parlare di te, Filippo, piccolo trombettista e mascotte, che a dodici anni hai fatto piangere mille persone suonando il “silenzio” sotto la pioggia per i Caduti della Grande Guerra.
«Tenebra, vento, schiume senza fine / l’immensità della notte cresceva / triremi di Pelasgi e di Liburni / ci remavano accanto a vele piene». Di notte il verso ti sveglia, riaccende la nostalgia di Europa e la voglia di fuga. Dai, scappiamo un’altra volta, Piero, mio capitano, che recitavi Omero al timone. La notte è perfetta, c’è poca Luna e a luci spente nessuno ci vedrà. Andiamo via, lontano da scartoffie, droni e capitanerie, splendidamente irreperibili, e vendiamo cara la pelle.
Al largo di San Benedetto incontreremo le balene. / Fuori, le sberle del mare. All’interno / solfeggio di respiri, in sintonia / col dormiveglia lungo del rollio. Nei porti andavi a caccia di buon vino, ma non per berlo subito. Lo centellinavi dopo, nei lunghi inverni sambenedettesi, per rivivere accanto al caldo i viaggi dell’estate. Oggi ho issato la bandiera stellata d’Europa fuori dal balcone. Alziamo le vele e via, con brezza di Ponente.