Lettere al Direttore / Governo Draghi, sfida a scacchi con i partiti

di Tonino Armata

SAN BENEDETTO – Gentile direttore, la sfida del NextGenerationEu è, prima di tutto, la sfida delle riforme che devono accompagnare e giustificare gli investimenti previsti. Possiamo discutere quanto vogliamo dei saldi sulle diverse misure, ma sarà una discussione inutile se non sapremo difendere adeguatamente l’azione riformatrice del Governo e la missione trasformativa del PNRR.

Dalla riforma della giustizia a quella del fisco, passando per la sburocratizzazione della Pubblica Amministrazione e dalle regole in favore della concorrenza, è qui che le resistenze da superare saranno più dure, ma è qui che si gioca il senso stesso del NextGenerationEu, un piano per offrire alle prossime generazioni un paese profondamente diverso, più moderno ed europeo.

Il Pd deve essere in campo per fare in modo che la visione di Draghi non sia una parentesi, ma possa consolidarsi in una proposta politica pragmaticamente liberalsocialista, democratica e riformatrice, fare tutto il possibile perché il Governo ce la faccia. 

“Ricostruiamo l’Italia”, è con questo spirito che Draghi ha presentato il Recovery a Montecitorio: progetti per 248 miliardi, per il piano che porterà il nostro Paese nel futuro garantendo donne e giovani. “Ce la faremo, ho fiducia nel mio popolo, ma se prevarranno visioni di parte, non ci sarà più tempo per rimediare ai danni”. Il piano rappresenta un punto fermo che non è fatto solo di numeri, scadenze, obiettivi, ma anche di impegni morali che puntano a richiamare i partiti alle proprie responsabilità davanti ai cittadini.

“Vi proporrei di leggere il Piano anche in un altro modo. Metteteci dentro le vite degli italiani, le nostre ma soprattutto quelle dei giovani, delle donne, dei cittadini che verranno”. Insomma, ora o mai più, è quello che serpeggia: “Nella presentazione di questo Pnrr c’è un po’ un’aria mesta da ultima spiaggia, sembra che tutti ne siano consapevoli”. Draghi professa ottimismo, e non potrebbe fare diversamente, a patto tuttavia che i tre cavalieri bianchi «onestà, intelligenza e gusto del futuro», prevarranno sui tre cavalieri neri, sempre i soliti da anni: «La corruzione, la stupidità e gli interessi costituiti». 

Uno dopo l’altro, i tasselli del dibattito pubblico stanno trovando il loro posto nel quadro generale. Se ne ricava una prospettiva destinata a segnare i prossimi mesi. Due piani s’intrecciano e si condizionano: quello del governo e quello più partitico che ha la sua scadenza decisiva nel rinnovo della presidenza della Repubblica. Gli elementi da considerare sono almeno quattro.

Il primo punto lo ha appena imposto Draghi con il discorso in Parlamento sul Recovery Plan. In cui è evidente che il nodo politico coincide con le riforme strutturali annunciate e indispensabili, in quanto connesse al successo degli investimenti attesi.

Draghi ha impegnato tutta la sua credibilità internazionale, ma ora ha di fronte la tradizionale resistenza di un sistema ramificato in mille corporazioni e refrattario al rinnovamento. Per aprirsi la strada Draghi deve fare in fretta — come gli consiglia Prodi, forse con un pizzico di malizia — , ma ha anche bisogno di un orizzonte lungo, poiché il progetto riformatore richiede alcuni anni per realizzarsi.

Secondo punto: dove trova Draghi la forza politica che gli serve, anche rispetto alla sua frastagliata coalizione?Nell’essere l’ultima carta che l’Italia può giocare. È interesse dell’Europa che il piano riesca, come testimoniano le analisi dei maggiori quotidiani (di recente Financial Times e Le Figaro).

Inoltre il presidente del Consiglio può contare sul rapporto privilegiato con la Casa Bianca, in sintonia con la visione euro-atlantica secondo cui l’Unione è tanto più forte quanto più è salda la relazione con Washington. Tutto ciò può non bastare a vincere le resistenze interne, ma è la sola strada possibile.

Terzo punto: se Draghi si avvia a svolgere un ruolo centrale (“inevitabile” secondo il Figaro) nella Ue in crisi di leadership, è logico che prima debba risistemare la casa Italia, quanto meno le fondamenta. Di nuovo: i tempi non sono prevedibili, per cui i partiti non possono essere emarginati, ma nemmeno assecondati nel loro attendismo spesso inerte.

Ne deriva — quarto punto — che il presidente del Consiglio sarà indotto nei prossimi mesi a mescolare il decisionismo con un lavoro costante di convincimento e mediazione nella sua maggioranza. Consapevole che alle sue spalle si è aperta una partita tutt’altro che banale. La destra, intesa come Salvini e all’esterno del governo Giorgia Meloni, è divisa ma condivide una strategia elettorale, volta ad accumulare consensi in vista del prossimo voto (nel ’22 o nel ’23). Il centrosinistra, legato ai 5S di Conte, ragiona in termini più sofisticati.

Enrico Letta si sforza di spingere Salvini fuori dall’esecutivo: non è detto che gli riesca, ma il motivo è chiaro. Nel secondo semestre il gioco politico ruoterà intorno al Quirinale. Non tanto per individuare fin d’ora il nome del successore di Mattarella, quanto per definire i confini del campo (magari comprendendovi Berlusconi).

Si tratta di stabilire chi sarà il regista dell’operazione, chi tirerà i fili. Nel 2015 fu Renzi. Oggi Letta aspira a svolgere lo stesso ruolo, così da eleggere una personalità ben salda nel campo del centrosinistra. Con la Lega ancora nel governo questa regìa sarebbe difficile, forse impossibile.

Del resto Draghi, personalità dominante, non è assimilabile al centrosinistra, tanto meno appartiene al ceto politico. In sostanza, il destino del governo e il futuro in Europa dello stesso premier s’incrociano con l’esito del confronto sul Quirinale, a cui il debole sistema politico affida se stesso.

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