Lettere al Direttore / Il caso Durigon e il revisionismo toponomastico degli stradari

di Tonino Armata

SAN BENEDETTO – Gentile direttore, in Italia esiste ancora via XXVIII ottobre, la data della marcia su Roma. Da Olmeto in Umbria alla calabrese Fiumara, sono più d’una ventina i paesi che continuano a celebrare l’occupazione della capitale da parte delle camicie nere. Alcuni cittadini di Pometo, Gerfalco e Parabita — borghi sparsi dalla Lombardia alla Puglia — abitano in via Impero, quello «risorto sui colli fatali» il 9 maggio del 1936.

Segni del nostro passato fascista sopravvivono ovunque. La toponomastica di svariati comuni ancora rende omaggio alle gesta del duce, al suo calendario civile, che comprende le date del XXIII marzo — fondazione del Fascio a Milano — e dell’XI febbraio, il giorno dei Patti Lateranensi. Per non parlare della miriade di viali, piazze, giardini e vicoli in memoria di gerarchi, podestà, prefetti, viceprefetti, poliziotti, trasvolatori, maître-à-penser, eroi civili e militari di quel totalitarismo che tolse la libertà agli italiani, perseguitò gli oppositori, partecipò al genocidio degli ebrei, commise carneficine nei paesi occupati, trascinando il paese nel ferro e nel fuoco.

A quasi un secolo dalla nascita del regime — nell’ottobre del prossimo anno ricorrerà il centenario — la sua eredità è ancora molto viva nelle città. Un reticolo di simboli muti affiora dalla stratificazione architettonica e monumentale del nostro paese. Sono tutti segni di una storia che ha fatto fatica a essere ripensata ed elaborata.

Il censimento. Sostenuto da molti volontari, il censimento nasce da un’idea dell’Istituto nazionale Parri (con la rete degli istituti per la storia della Resistenza), preoccupato dalla tendenza della nuova destra di intestare giardini e strade ai protagonisti del fascismo.

La recente proposta del sottosegretario leghista all’Economia Claudio Durigon — desideroso di omaggiare Arnaldo Mussolini con il parco di Latina — è solo l’ultima spia di un fenomeno che è stato raccontato.  Ne è la storia riscritta in silenzio. L’obiettivo di questo lavoro, è di censire monumenti e intitolazioni di strade che rimandano ai luoghi pubblici della memoria del fascismo, per la gran parte rimasti al loro posto dopo il 1945 oppure costruiti nel corso della storia successiva, come sta accadendo in questi ultimi anni con ragguardevole intensità.

Non si tratta quindi di mappare gli interventi architettonici e urbanistici realizzati dal fascismo e nel fascismo. Ma di rintracciare entro un paesaggio toponomastico per la gran parte ispirato dalla tradizione liberale e antifascista tutti i monumenti e tutti gli odonimi «esplicitamente dedicati alla commemorazione di uomini, fatti, eventi della storia del fascismo italiano». Incredibilmente sopravvissuti integri nella ultrasettantennale democrazia, privi di una contestualizzazione e di una scheda informativa che aiuti a mettere una distanza. E ora arricchiti da una rinnovata vague nostalgica.

L’eredità fascista. Che cosa racconta di noi e della nostra storia repubblicana questa resistente memoria del fascismo? La ricerca ancora in fieri, sostenuta da un comitato scientifico che annovera tra gli altri Filippo Focardi, Nicola Labanca e Lucia Ceci, ha già mostrato alcuni tratti specifici, il primo dei quali è l’estensione del fenomeno al di fuori delle grandi città.

È naturale che per segnalare la singolare famigliarità degli italiani con la monumentalità littoria il New Yorker punti il dito sul “Colosseo quadrato” dell’Eur, con la celebre frase del duce che annunciava l’invasione dell’Etiopia (Why are so many fascist monuments still standing in Italy? di Ruth Ben-Ghiat, 5 ottobre 2017). Ed è quasi scontato che le discussioni sulla cancel culture si concentrino sul Foro Italico e sull’obelisco con la scritta Dux simboli della Roma fascista.

In realtà le reliquie nere appaiono distribuite in un affollato tessuto urbanistico anche al di fuori dei centri più importanti, in maggior misura nel Mezzogiorno rispetto al Nord d’Italia, dove l’infuriare della guerra civile comportò nel dopoguerra una resa dei conti più definita.

È al Sud che più permangono strade intestate a Italo Balbo, Michele Bianchi, Ettore Muti, Giuseppe Bottai, Costanzo Ciano, Emilio De Bono, Dino Grandi, Alfredo Rocco, Rodolfo Graziani, lo spietato sterminatore di libici ed etiopici i cui fasti sono stati rinnovati anche nel XXI secolo nella laziale Affile: tuttora a Filettino è aperto ai bambini un parco giochi con un’intestazione che ricorda in modo inquietante la scritta in ferro di Auschwitz.

Due mausolei controversi. Seppure a vario titolo e con responsabilità diverse, molti protagonisti del ventennio littorio sembrano essere passati indenni attraverso le epurazioni toponomastiche. Anche il clima di sospensione che a distanza d’un secolo avvolge i monumenti del fascismo restituisce l’incapacità di rielaborare quelle vicende. Due esempi in particolare, ma se ne potrebbero fare altri: il mausoleo dedicato a Costanzo Ciano, mai finito, sulle colline alle spalle di Livorno; e il colossale omaggio funebre in memoria di Michele Bianchi, a Belmonte Calabro, realizzato all’indomani della morte del quadrumviro.

L’edificazione del mausoleo per Ciano fu cominciata nel 1939 e non è stata mai portata a compimento. Ma ancora esiste il basamento, che sta lì a ricordare cosa avrebbe potuto essere e non è stato, come a celebrare un’assenza significativa, che ha appena curato per Carocci il volume Il fascismo italiano. Storia e interpretazioni.

Nel caso di Bianchi, l’integrità della gigantesca colonna di travertino che troneggia sul colle sembra mostrare la protratta volontà delle classi dirigenti locali di preservare l’omaggio della città natale a un leader nazionale del fascismo La sezione calabrese dell’Anpi ha proposto di riconvertire il mausoleo in monumento dell’antifascismo e delle lotte contadine, ma i seguaci del quadrumviro hanno protestato: un’intollerabile offesa. I turisti lasciano i loro like su internet per la vista mozzafiato.

La memoria coloniale. Nella sua soverchiante retorica, a distanza di svariati decenni appare intatto anche l’armamentario odonomastico del colonialismo fascista, nato sotto l’impero ma arricchito nel dopoguerra. Non tutte le città seguirono l’esempio di Bologna che già alla fine del conflitto provvide a intestare agli eroi della Liberazione il rione dedicato a Tripoli, Cirene e Bengasi.

E forse non è un caso che proprio da quella città sia nata la guerriglia dei Wu Ming 2, artefici di iniziative per il cambiamento di nome o inserimento di targhe informative. Perché gli odonimi — sostengono a ragione questi volontari — «non sono solo simboli ma anche sintomi di malattie che affliggono la memoria pubblica». Da qui la necessità di rinominare i luoghi.

Il culto dei morti. La questione si fa ancora più grave se lapidi e targhe memoriali diventano pretesto per agguerriti revanscismi. Questo succede nei cimiteri italiani dove campeggiano le stele che celebrano i repubblichini uccisi dai partigiani o i caduti della guerra di Etiopia. Al culto dei morti di parte fascista è dedicata una sezione del censimento che, grazie agli studi di Andrea Martini per il Parri, approfondisce il riproporsi di una liturgia — quella del martirologio littorio — che fin dalla fine della guerra fu una componente fondamentale della narrativa neofascista.

Cerimonie nostalgiche ancora si celebrano presso il Sepolcreto dei prodi fascisti — sacrario dei caduti della Rivoluzione fascista nel cimitero di Bologna o a San Possidonio, nel modenese, dove vengono ricordati i militi della Guardia nazionale repubblicana ammazzati dai partigiani il 19 maggio del 1945.

Anche la tomba di Italo Balbo, a Orbetello, è meta di pellegrinaggi di Casa Pound, oltre naturalmente la cripta di Mussolini a Predappio (al momento chiusa), sulla quale si fonda buona parte del turismo locale, tre palle e mezzo su Tripadvisor. E al di là delle mura cimiteriali può sorprendere che ancora esistano musei dedicati al “Reggimento dei giovani fascisti”, come quello a Ponti sul Mincio nel mantovano: non è sede di cerimonie rivendicative, ma certo contribuisce ad alimentare una memoria condannata dalla storia.

Sotto il cielo di Berlino. Alla fine della ricerca, la mappa del reliquario nero confluirà in un sito che intende funzionare da campanello d’allarme: così almeno sperano gli organizzatori, perché in un paese attraversato da correnti neofasciste non si sottovaluta il rischio di una propaganda all’incontrario. Resta solo da chiedersi se in città come Berlino o Vienna possa capitare che le mamme accompagnino i loro bambini a giocare in un parco intestato a qualche “macellaio” nazista (“macellaio del Fezzan” era il soprannome di Graziani).

Come ci racconta Deirdre Mask in Le vie che orientano (Bollati Boringhieri), in una Berlino rasa al suolo e afflitta da tubercolosi e pellagra, il 24 maggio del 1945, durante la prima riunione dei sindaci delle diverse zone, uno dei punti all’ordine del giorno riguardava i nomi delle strade. Il nazismo vi era passato sopra con una furia riscrittoria ed era avvertita fortissima l’urgenza d’una bonifica.

Poi, certo, i vincitori avrebbero preso a litigare sui nuovi nomi da scegliere, presagio della Guerra fredda che avrebbe diviso in due la città. Ma sotto il cielo di Berlino i nomi dei criminali nazisti scomparvero quasi subito dalla vista dei suoi abitanti. Cent’anni dopo, noi siamo ancora qui a parlarne.

 

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