Lettere al Direttore / Il “Draghismo” come sfida politica

di Tonino Armata

SAN BENEDETTO –  Egregio direttore, a questo punto l’onestà intellettuale dovrebbe suggerire, e quasi imporre, di ammettere che politica e antipolitica sono finite assieme. Questo Non è un governo politico e nemmeno misto. La formula resta quella chiesta dal Colle: anche i politici hanno un ruolo tecnico e di scopo.

Due cerchi concentrici: squadra di esperti per riscrivere il piano per i fondi Ue e gli esponenti di partito sui temi chiave: Pa, Sviluppo, Turismo e Lavoro

Draghi nel segno dell’ equilibrio. Come si è capito dalla lista dei ministri, non è un governo esplosivo e rivoluzionario. Non è un governo che abbaglia. O che soddisfa tutte le attese, davvero troppe, che si erano create giorno dopo giorno. C’era il desiderio diffuso di assistere a un totale rivolgimento di persone e di attitudini, come se stessimo per entrare in una nuova era. Comprensibile, se si considerano le delusioni dell’esperienza precedente; poco realistico, alla luce dell’evidente tendenza all’equilibrio e alla moderazione di Mario Draghi (e del presidente della Repubblica accanto a lui).

La compagine riflette la realtà complessa del Paese immerso in un inverno non solo meteorologico. E il risultato, se ci si astrae dalle polemiche sul profilo di alcuni prescelti che non sarebbe abbastanza alto, è il migliore, o il più decente, a cui si poteva aspirare nelle condizioni date.

Il presidente incaricato ha dovuto tenere in equilibrio due esigenze. Primo, mettere in campo competenze ed energie nuove così da rendere credibile l’orizzonte riformatore dell’esecutivo. Che non è certo un Conte-3 con un diverso premier, come diceva ieri sera qualche buontempone. E non lo è per una semplice ragione: la vera impronta modernizzatrice del governo è il presidente del Consiglio.

È lui il garante della volontà italiana di stare in Europa nonché il principale fattore di discontinuità con il recente passato. È lui la figura che l’Unione identifica con il successo del “Recovery Plan” e delle riforme connesse: dalla giustizia civile alla pubblica amministrazione alla finanza pubblica e al fisco, fino all’innovazione tecnologica e all’economia verde. Tutto il resto, almeno per oggi, passa in seconda linea. Quindi i nomi dei “tecnici” sono validi in quanto scelti da Draghi in base alla stima personale e a una precisa sintonia.

La seconda esigenza di cui Draghi si è fatto carico riguarda le forze politiche che compongono la sua maggioranza larga e sganciata dalle “formule politiche”, come voleva Mattarella. Sarebbe stato un errore mortificare i partiti, già reduci da un fallimento che riguarda in modi diversi sia il centrosinistra sia il centrodestra sia soprattutto – il movimento “grillino”.

Anziché essere percepito come commissario liquidatore di un sistema, Draghi vuole essere accolto come l’uomo della tregua, alla cui ombra la dialettica politica può rigenerarsi con buonsenso. Il mosaico dei ministeri “politici”, destinato a completarsi con i viceministri e i sottosegretari, esprime rispetto per i vari partiti, fotografati nel loro peso parlamentare. Ma c’è anche un investimento non irrilevante su di loro.

A differenza del governo Monti del 2011, Draghi punta a coinvolgere alcuni ministri nel programma riformatore e nella gestione del “Recovery”. Tutti hanno la possibilità di ritrovare il contatto con le sofferenze della società: da Orlando al Lavoro a Giorgetti allo Sviluppo economico, per citare solo due casi.

S’intende che le polemiche sono appena dietro l’angolo, appena smussate dal rispetto dovuto alla figura autorevole del premier. A ben vedere, peraltro, Draghi ha saputo usare con accortezza la bilancia. A maggior ragione se è riuscito a distribuire gli incarichi senza negoziare alcunché con i capi-partito. Tutti hanno qualche motivo di scontento, nessuno però è più infelice di un altro.

Del resto, che la maggioranza fosse estesa a Lega e Forza Italia era noto al centrosinistra già da giorni. Quanto durerà il governo Draghi? Qualcuno dice: al massimo un anno, fino alla scadenza del Quirinale. Ma al momento nessuno può dirlo. Ora la priorità sono due, tra loro collegate: il “Recovery” e le riforme per modernizzare un’Italia ingessata.

A questo punto l’onestà intellettuale dovrebbe suggerire, e quasi imporre, di ammettere che politica e antipolitica sono finite assieme. L’una abbattuta dai suoi molti errori di molti anni. L’altra svuotata ormai dai suoi equivoci, dalle sue delusioni e perfino dai suoi tradimenti.

Già, perché l’avvento di Draghi davvero chiude un’epoca. E rende piuttosto patetiche le pretese degli uni, degli altri e degli altri ancora di condizionare un percorso di governo che procederà tanto più speditamente quanto più dimostrerà di non farsi prendere nella pania dei condizionamenti tentati da partiti e movimenti di ieri e di oggi.

Dunque sarebbe meglio se Salvini e Zingaretti, ognuno a modo proprio, non cercassero di sottolineare un’influenza che non hanno sui destini del governo che sono chiamati ad appoggiare. E che Grillo e i suoi, a loro volta, non cercassero di spacciare un ministero nuovo (un ministero!) come la prova provata del loro potere e del senso di quel potere.

Si dovrebbe riconoscere semmai che l’antipolitica sta finendo di suo. Non contrastata dagli insegnamenti degli eredi dei partiti di un tempo. Ma svuotata piuttosto dal vuoto di idee, di competenze, di suggestioni che la cronaca di questa legislatura impietosamente rivela.

Sicché oggi il M5S non è più la voce di chi urla e protesta contro la politica politicante ma non è neppure approdato ai territori della competenza e dell’arte di governo. È rimasto per così dire in mezzo al suo guado, mescolando furbizie di piccolo conio imparate troppo in fretta e parole d’ordine inutilmente stentoree recitate da attori giunti in fine carriera. Né carne né pesce, insomma.

Ma la fine di tutte quelle illusioni, e di tutti quegli equivoci, a sua volta non rigenera la tradizione politica che si vorrebbe far tornare in auge. Perché nel frattempo quella tradizione ha un po’ smarrito se stessa nell’inseguire da molti anni a questa parte la protesta che non le apparteneva. E così, invece di combattere corpo a corpo contro l’altrui demagogia, ha finito per farla propria a piccole dosi e ora sembra non essere più in grado di acquisire almeno il merito delle difficoltà altrui.

Nel frattempo il premier guiderà con redini invisibili il processo politico. Non sfiderà i partiti, ma non se ne farà condizionare. E si porrà, quasi involontariamente, come il simbolo di un establishment che può fare a meno dei partiti non perché li prenda di punta e ne contesti le ragioni ma semplicemente perché ne constata lo svuotamento.

Dunque, forse è inutile che le forze politiche si attardino a praticare il giochino di rimarcare un’influenza che hanno perduto – un po’ tutte. Ma colgano invece l’occasione di Draghi e del suo governo (del “suo”, non del loro) per ripensare se stesse, le proprie ragioni, il senso della loro presenza in un paese che sta cambiando pelle un’altra volta.

La politica dei grandi partiti è finita con la fine della prima Repubblica. L’antipolitica a sua volta sta finendo ora, annegando nel piccolo stagno delle sue promesse mancate e delle sue delusioni annunciate. Ma proprio questa duplice crisi accende ora la fantasia di chi pensa che la politica debba riprendere, prima o poi, la sua funzione di guida.

Come sempre, la sventura promette di essere anche un’opportunità. Purché la si sappia cogliere.

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