Lettere al Direttore / Italia da copogiro, l’impresa nella notte più difficile

di Tonino Armata

SAN BENEDETTO – Gentile direttore, gli azzurri volano in finale Eliminata la Spagna ai rigori. Dio salvi Donnarumma. Sul prato mitico di Wembley l’Italia di Mancini è già intrisa di pioggia e di leggenda: li giocherà domenica la finale dell’Europeo, avendovi domato ai rigori, con la decisiva parata del portiere prodigio su Morata e il suggello di Jorginho, il suo incubo del terzo millennio: la Spagna. Che difendeva il record mondiale dei risultati utili consecutivi (35), stabilito tra il 2007 e il 2009 nell’era di Xavi e Iniesta e minacciato proprio dagli azzurri, adesso a quota 33.

Ci faranno morire di crepacuore oltre che di gioia, questi sciagurati ragazzi. La notte più difficile regala l’impresa più grande, una corsia imboccata contromano come un viale del tramonto e invece era l’autostrada verso la finale.

L’abbiamo meritata prima, ma anche i rigori bisogna saperli tirare. Tutto pareva perduto: identità, formazione titolare e bis, rigoristi sostituiti o malandati, eppure domenica avremo quella coppa vicinissima dopo 53 anni.

Non deve sfuggire. Non è stata una partita ma un garbuglio, cercando di catturare la biglia argentata (i grafici si accaniscono pure sul pallone) che invece era sempre tra i piedi degli spagnoli, anestesisti del gioco, sommi esperti di narcosi. L’Italia non è quasi mai stata sé stessa, costretta a uscire da quell’abito scintillante che aveva indossato fin qui. La battaglia del possesso l’abbiamo perduta subito, era prevedibile ma non in questa misura.

Ed è stato beffardo farci raggiungere da un centravanti vero come Morata, dopo che la Spagna aveva offerto alla sfida solo quello falso, e noi viceversa senza più Immobile, il verissimo 9. Una giostra stramba, figlia di una scelta conservativa e insolita per Mancini: gestire il vantaggio, pentirsene poi. Così i supplementari li abbiamo vissuti con una formazione pasticciata, piuttosto stanca e sempre irretita dagli spagnoli, i padroni della biglia. È stato un duello tra campioni sfiniti, alcuni smarriti (Insigne, Barella, Immobile).

Saltato il disegno, si doveva vivere il momento. La nuova Italia non è stata molto riconoscibile, la vecchia l’ha assistita solo nella rapidissima azione del vantaggio, Donnarumma il detonatore, Chiesa il magnifico esecutore.

Scatenato per una mezz’ora, lo juventino è stato poi costretto ad arrendersi mentre il suo compagno bianconero Morata andava a cacciarsi nella buca del rigorissimo fallito. Insomma, stavolta la Nazionale è stata obbligata a recitare un’altra parte, in bilico tra passato e presente, illusioni e paura, come un sonnambulo sul cornicione. La soluzione della palla a terra per strappare la ragnatela è stata usata una volta sola, non a caso servendo Immobile, e da qui al gol di Chiesa è stata quasi un’evoluzione naturale.

Il problema è vivere e quasi accettare la passività, come se la Spagna fosse ancora la grande armata di un tempo. La nostra crescita è andata a sbatterci contro, ma in un attimo siamo tornati adulti. E adesso possiamo vincere l’Europeo come soltanto nel ’68, l’anno di tutte le rivoluzioni. Nel suo piccolo, anche l’Italia di Mancini è sessantottina. 

LA NAZIONALE ITALIANA – UN BLOCCO DI STILE E DI EFFICACIA

Non lo diciamo mai ad alta voce, perché le vergogne sono altre e l’enfasi è una compagna di viaggio pericolosa. Però la mancata qualificazione al Mondiale 2018 è un non-evento che ha lavorato in profondità nella psiche di tutti noi, la sottrazione di un rito che evidentemente sarebbe durato poco — il valore di quel gruppo era quello che era — ma sarebbe stato comunque preparato e condiviso e sofferto e in qualche modo vissuto.

Restarne fuori è stata una ferita che Roberto Mancini ha iniziato a curare tre anni fa, praticamente in parallelo alla disputa del Mondiale russo, con idee precise di redenzione: giovani, fiducia, gioco, coraggio. Il primo gol del nuovo ciclo — di Mario Balotelli! — fu un’estrema illusione presto denudata, la chiamata di Zaniolo un manifesto programmatico, la vittoria in Polonia la chiave d’avviamento, la lunga serie di risultati positivi una scalinata la cui cima era avvolta nelle nuvole, e che giunti a questo punto ti pare quasi di poterla toccare.

L’Italia di Mancini è una macedonia di età e caratteri, ma un blocco monolitico di stile ed efficacia: e per quanto la classifica Fifa possa essere un parametro friabile, contro di noi per lunghi tratti i numeri uno (da tre anni) del Belgio non hanno proprio capito a quale gioco stavamo giocando. Sono soddisfazioni. Sono risalite da un precipizio. Capisci cosa perdi solo quando non ce l’hai più, certo. La Nazionale ben dentro l’estate, per esempio. È tornata, evviva. 

MA ITALIA BELGIO È STATA LA SINTESI PERFETTA DELLE DUE ANIME CHE SONO IN NOI

 Uniti fino alla fine 

È stata la meraviglia emotiva di una Nazionale capace di tutto: abbiamo una squadra gonfia di tecnica, coraggio e fiducia, con qualche fragilità fisica e mai psicologica. Dalle finestre si sente gridare nella notte. Urlano i clacson. Oltre i limiti c’è la bellezza, di quel tipo che si conquista soffrendo.

Abbiamo avuto momenti di pura magnificenza nella sera più lucente di Lorenzo Insigne, piccola preziosa botte di talento da quando gioca a pallone, e di Barella. È stato lui, con quel gol danzante, a cominciare a far fuori il suo compagno di squadra Lukaku, una specie di ordalia interista tra fratelli coltelli.

Il calcio è meraviglioso sotto il metro e settantadue. Si può giocare un calcio da giganti e si possono fare cose straordinarie in un corpo più piccolo, che sa però frullare mirabilmente il pallone. I belgi battuti dai colpi eccezionali di Nicolò Barella e Lorenzo Insigne. Mentre quelli là svettavano sopra, loro passavano sotto, si rialzavano, trovavano più rapidamente quel buco libero di campo.

Quel tunnel spazio temporale che porta direttamente alla semifinale di Londra e alla Spagna. È la notte più bella per i nostri Skywalker, portati in trionfo al fischio finale sulle note di Jovanotti: «Il più grande spettacolo dopo il big bang siamo noi, io e te…» Tutti si erano concentrati sulla marcatura a uomo in stile anni sessanta di Chiellini su Lukaku. Lo juventino andava a prendere l’interista fino a centrocampo, gli giocava d’anticipo, gli saltellava intorno come un grillo per tenersi pronto a ogni intervento e provocando un inevitabile interrogativo: siamo al decimo del primo tempo, quanto potrà durare in questa maniera? Per quelle incomprensibili stranezze del calcio a Lukaku era stata riservata la massima artiglieria di difesa del dinoccolato destroyer azzurro.

L’Italia, stupenda nelle prime tre gare, sofferente ma vincente nella quarta, venerdì l’Italia ha realizzato la sintesi perfetta della sua doppia anima: purezza di gioco e fortezza interiore. Con, in più, la storica praticità nel finale: un altro passo sulla scala della tensione. Le lacrime di Spinazzola, l’uomo-palo contro Lukaku poi costretto a uscire tra le lacrime, sono state il surplus di sentimento con tutti gli azzurri dall’amico con il volto tra le mani, disteso sulla barella. Dettagli, si dirà, ma questa è una Nazionale che ne accatasta molti per poi alzare una piramide.

Chi, come noi, seguì da vicino gli azzurri al mondiale 2006 sa che a un certo punto li circondava una specie di aura di immortalità: non potevano perdere mai e lo sapevano, questa cosa si sentiva nell’aria come un profumo, un odore.

Adesso c’è qualcosa di quei giorni che ritorna. Perché l’Italia ha una padronanza profonda delle partite e di se stessa, sa sempre cosa fare anche quando non ci riesce. Il gruppo non come concetto astratto o ideale retorico, ma cemento di una vera banda di fratelli e fratellastri. La famiglia allargata della Nazionale ha reso il Belgio un’accolita di lenti spilungoni volenterosi, come fatti di legno e pietra, noi invece di carne e fuoco.

Ora non possiamo fermarci, la Spagna non è più forte di noi e ha salvato la pelle contro la Svizzera che abbiamo già surclassato. Non esiste proprietà transitiva nel calcio, però gli azzurri sono davvero qualcosa di grande. Possiedono la bellezza del cuore e uno spirito omerico.

 

Lo sport scalciapensieri

 

“La folla – unita ebbrezza – par trabocchi / nel campo: intorno al vincitore stanno, / al suo collo si gettano i fratelli. / Pochi momenti come questi belli, / a quanti l’odio consuma e l’amore, / è dato, sotto il cielo, di vedere”. È il momento del gol, nei versi di Umberto Saba, dal suo Canzioniere.

Per alcuni il calcio è poesia: per una rara volta un poeta verseggiò di calcio. Novant’anni fa era forse un calcio diverso. Ma ad ogni torneo l’illusione torna, e il balsamo della spensieratezza sociale funziona: “Le angosce che imbiancano i capelli all’improvviso, / sono da voi così lontane! La gloria / vi dà un sorriso fugace: il meglio onde disponga. Abbracci / corrono tra di voi, gesti giulivi.” Sì, deve avere qualcosa di speciale questo sport benché miliardario, viziato, distratto e non sempre limpido. Ogni volta che si scende in campo, comunque vada, “festa è nell’aria, festa in ogni via. / Se per poco, che importa? / Nessuna offesa varcava la porta, / s’incrociavano grida ch’eran razzi”. Se poi offesa ha varcato la porta, be’, pazienza, il calcio è anche filosofia: dell’eterno ritorno in campo.

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