
di Tonino Armata (presidente onorario associazione Città dei bambini)
SAN BENEDETTO – Egregio direttore, scusami se ritorno sul problema della vacanza. Ma, è l’oggetto di discussione di questo periodo. Le città si svuotano (anche se meno degli anni scorsi), le località di vacanza al mare e in montagna si riempiono di turisti (anche se distanziati e mascherati), ma la convivenza con il Covid 19 non consente distrazioni. Le misure di prevenzione per evitare la ripresa del contagio restano il primo pensiero per gli esperti del comitato tecnico scientifico e per il governo chiamato a decidere. In particolare sono due i fronti caldi: quello dei trasporti, anche in considerazione degli spostamenti dei vacanzieri lungo la penisola; e quello della scuola, in vista dell’ormai vicina riapertura di settembre.
Non esisterebbe Batman, se non ci fosse Joker. E nessuno ricorderebbe Achab se non fosse per la sanguinaria Moby Dick. Ci nutriamo di conflitti. Ed è la ragione per cui alle ferie del 2020 manca un elemento essenziale: l’odiatissimo lavoro, irreperibile causa virus. Chi l’avrebbe mai pensato? Tocca scoprire che per legittimare la vacanza, c’è un bisogno imprescindibile di ciò che alla vacanza si contrappone, altrimenti il brivido non scatta.
E ne facciamo esperienza in questa kafkiana estate epidemica, in cui rito vorrebbe che ti sedessi sotto l’ombrellone contemplando come Leopardi l’infinito e annegandovi il ferale filmino dell’inverno frenetico, del tran tran familiare, del vituperato ufficio, dei colleghi molesti. Peccato che d’un tratto tutto questo sia scomparso. Abbiamo alle spalle mesi di smart working dal divano di casa, niente smog, niente traffico, niente parcheggi, niente badge, niente pausa pranzo, niente slalom emotivo fra le battute fuori luogo del caporeparto o dell’ambizioso di turno.
E allora? Da cosa dovrei rilassarmi? Contro quale carcere dovrei inveire, se stavo ai domiciliari? Lo stress che fino allo scorso anno ci rendeva elettrici, si è per la gran parte di noi annacquato in una calma piatta innaturale, un elettroencefalogramma piatto, una stasi narcotizzata che ora replichiamo nella siesta sonnacchiosa della sdraio. E i conti non tornano, non tornano più, perché la dialettica fra tempo libero e occupato ha finito inevitabilmente, soprattutto dalle rivoluzioni industriali in poi, per sublimarsi in un contrasto fra bene e male, fra libertà e costrizione, fra salute e danno, ma se manca uno dei due poli, è ovvio che la narrazione non decolla, gli hobbit sono orfani degli orchi e a Hogwarts reclamano Voldemort.
Quando abitavo a Milano nel ’68 cantavo la canzone di Celentano: “Cerco l’estate tutto l’anno”, e in quel verso c’era tutta l’impazienza dei lunghi grigi mesi produttivi, riscattati in pochi giorni di tuffi, salsedine, gamberi fritti e chiari di luna. L’anno trascorreva in un countdown, cui ora si è sostituito ahimè il lockdown, e la bussola è saltata. Peraltro, la stessa clausura degli adulti ha colpito duro anche la prole di casa, pure lei consegnata alla tirannia della didattica a distanza, in quel pugno di centimetri fra il letto sfatto e il computer davanti alla finestra.
Non è un dettaglio da poco, se si considera che l’estate è per tutti, ancora, il grande romanzo infantile della liberazione dai banchi, dall’ansia della lavagna, dallo sguardo truce del Cerbero in cattedra, ma pure questo ha mutato forma, la campanella suonò per l’ultima volta a marzo e da lì in poi benvenuti su Zoom o Microsoft Teams. La nostra vita si è contratta, senza preavviso, e siamo stati forzati a un riposo insostenibile, che adesso rende paradossale la prassi della vacanza (che poi è il sostantivo stesso, dal latino vacuus, a raccontare di un vuoto, di un’attività sospesa, di una parentesi fra un prima e un dopo in cui si è faticato e si faticherà).
Certo, il discorso cambia se pensi agli infermieri, ai medici e a tutte le truppe schierate in trincea contro il bio-nemico, gente per cui non basterebbero due mesi di lidi caraibici. Ma tutti gli altri? Se si tolgono dal novero i milioni di italiani cui il Covid ha risparmiato sì la vita ma non il bilancio familiare, quei pochi che popolano le spiagge li vedi aggirarsi attoniti, sorridenti come da copione balneare ma visibilmente due ottave sotto, talora perfino adombrati da un certo senso di colpa. E ti basta spiarne i discorsi, per realizzare che sul bagnasciuga il lavoro è passato da tema rimosso (l’anno scorso dicevano “non voglio sentirne parlare per almeno tre settimane!”) a inatteso protagonista, perché costituisce la suprema incognita della ripresa: ci sarà, non ci sarà, e se ci sarà come sarà?
Credo sia per questo che si respira in giro un’atmosfera così anomala, a tratti addirittura inquietante: le ferie 2020 non sono vissute come il premio finale di un anno di lavoro (interrotto quattro mesi fa), bensì come la boccata d’ossigeno del nuotatore prima di tornar sott’acqua. “Cosa ci porterà l’autunno?” È il vero tormentone, altro che hit. Ho promesso a me stesso di non cantarlo mai.