Lettere al direttore / Le problematiche della scuola, i dirigenti più santificati che sanificati,

di Tonino Armata

Egregio direttore,

come componente dell’Osservatorio permanente di San Benedetto del Tronto la questione per cui scrivo è questa. La scuola riaprirà tra poco più di due mesi e i dirigenti scolastici sono più vicini alla santificazione che alla sanificazione. Nella bozza delle linee guida emanate giorni fa, il Miur non fa altro che ribadire quanto asserito dal presidente della task force Patrizio Bianchi in una recente audizione parlamentare:

“All’interno della specificità di ciascuna realtà territoriale, le singole scuole dovranno rilevare se ad occorrere siano più spazi, più educatori, o a decidere di ricorrere alla divisione delle classi”. Come sempre succede quando le situazioni si complicano, si estrae dalla manica l’asso dell’autonomia scolastica.

Peccato sfugga il particolare che, a disparità di condizioni geografiche e strutturali, le scuole abbiano parità di strumenti e dispongano di un’autonomia pari a zero. Non si ottengono più insegnanti per fare doppi turni se le aule sono anguste, né aumenta il numero dei bidelli su richiesta e soprattutto gli spazi non si moltiplicano come i pani e i pesci.

È giusto allora che ogni scuola si “arrangi come può” e che a condizionare l’offerta formativa sia la casuale condizione logistica delle nostre scuole? È giusto, come sostiene Patrizio Bianchi, che ai bambini di qualche regione possa essere garantito il tempo pieno perché in quella regione non vi è il problema degli spazi e nel cuore di qualche città si sia costretti a dimezzare il tempo di permanenza a scuola perché le aule non sono sufficientemente capienti o perché non si hanno spazi alternativi? È questo il futuro che ci aspetta?

Le famiglie non potranno che salire sul carro della fortuna e sperare che la scuola vicina sia spaziosa al punto da riuscire a non dimezzare classi e tempi.

E l’intero territorio nazionale vedrebbe cadere il principio di quell’equità su cui si fonda il diritto allo studio costituzionalmente sancito. È urgentissimo che al più presto, e sarebbe già tardi, il ministro con un atto di coraggio indichi i tempi scuola, anche distinti per fasce di età, da assicurare in modo uniforme a tutti i bambini italiani, ragionando ovviamente al ribasso sulle strutture scolastiche più penalizzate.

A perderci sarà “chi poteva dare di più”, ma a guadagnarci la capacità di offrire pari opportunità di istruzione a tutti gli studenti, indipendentemente dal luogo di residenza in cui vivono.

La ferita aperta della scuola. L’accordo faticosamente raggiunto fra governo e Regioni permette almeno, sia pure con grande ritardo, di fare le prime mosse per riaprire le scuole il 14 settembre.

Ben poco del testo approvato, tuttavia, rivela piena consapevolezza del rischio enorme che corrono i nostri studenti. Secondo i primi studi, negli Usa e in Inghilterra la perdita di apprendimenti per la chiusura delle scuole a causa del Covid 19 è fra il 35 e il 50%, a seconda delle materie e dei gradi: a questo punto dell’anno i ragazzi hanno imparato circa la metà dei loro coetanei un anno fa.

L’Italia ha cancellato le rilevazioni Invalsi, perciò la caduta degli apprendimenti non si può misurare: impossibile però pensare che le cose siano andate meglio. Gli studenti che provengono da famiglie con minori risorse economiche e culturali pagheranno un prezzo più alto ancora.

Avere perso così tanta scuola può generare danni permanenti, rendendo più difficili gli studi futuri e l’ingresso nel mercato del lavoro, come fu per la recessione del 2009. Il costo economico dell’assenza di scuola sarà per l’Italia molti punti di Pil.

In un Paese che tiene al proprio futuro, come sanare questa ferita dovrebbe essere l’impegno di tutti. Assai più che scendere in piazza per chiedere che tutto a scuola torni come se il virus non ci fosse più o esercitarsi al tiro al bersaglio sulla ministra dell’Istruzione.

Certo, il ministero ha fatto gravi errori: chiudere la scuola il 10 giugno, invece di prolungarla fino a fine luglio, almeno a distanza; non provare nemmeno a fare ripartire tutti il 1° settembre, forse sapendo di non avere fatto il necessario affinché tutti gli insegnanti fossero subito in cattedra; fare uscire linee guida per la riapertura con incomprensibile ritardo.

Inoltre, ha voluto dare un senso di “normalità”, in un anno che normale non è. Soprattutto, non ha messo la perdita di apprendimenti al centro.

Il sentiero per settembre è stretto: richiede coraggio e prudenza. Da un lato, l’attività didattica deve ripartire al più presto in maniera potenziata, altrimenti la ferita si allarga. Si deve fare più di prima, meglio di prima.

Dall’altro, le scuole possono essere focolai di nuovo contagio: perciò la riapertura deve seguire le indicazioni degli esperti sanitari, a cominciare dal distanziamento, che peraltro sarà assai più blando che in altri Paesi europei, dove è 1,5-2 metri. A medici e scienziati dobbiamo tante vite salvate: dar loro ascolto è il minimo.

Di sicuro, la scuola a settembre non potrà essere la stessa di prima. Non è un male, perché costringerà a guardare oltre l’emergenza. Ci si dovrà stare più ore, se vogliamo insieme sicurezza e possibilità di recuperare parte del terreno perduto.

L’insegnamento dovrà cambiare, con percorsi personalizzati e concentrandosi sugli elementi essenziali di ogni materia, imparando ad usare — docenti e allievi — le tecnologie per una vera didattica digitale, che non è quella fatta in emergenza. Scuole e presidi dovranno assumersi maggiori responsabilità per trovare, anche in futuro, le soluzioni adeguate alla propria realtà, con gli aiuti necessari. I genitori, che con il lockdown hanno capito l’importanza della scuola, non solo come parcheggio, dovranno stare più attenti a cosa vi succede.

Per riorganizzare spazi, tempi e modi della didattica serviranno ore di straordinario o assunzioni mirate di docenti ben formati, investendo le risorse necessarie, per le quali ieri si è fatto un passo avanti. E molte altre andranno trovate per rinnovare gli edifici scolastici, pensando a una didattica più moderna di quella frontale, ancora prevalente.

Di tutto ciò le linee guida parlano in modo troppo generico. Non sorprende: così è il nostro sistema d’istruzione, che deve tenere insieme scuole, ministero, Regioni, Province, Comuni, sindacati.

I sistemi più avanzati per didattica, tecnologia e semplicità organizzativa, come quelli del Nord, stanno reagendo con maggiore rapidità alla perdita di apprendimenti: noi ci riusciremo solo se sapremo andare nella stessa direzione. E questo era il problema già ben prima del virus.

Il futuro della scuola appeso alle rime buccali. «Ragazzi, per cortesia, un po’ più di attenzione alle “rime buccali”». «Ma eravamo rimasti alle rime baciate». No, baciate no! Dal prossimo anno scolastico, chi non sa cosa sia una rima buccale è nei guai.

Nelle linee guida per il ritorno sui banchi la locuzione «rime buccali» riguarda le misure del distanziamento. In senso stretto: un metro fra le rime buccali degli alunni. Dove si intende un metro dalle rispettive bocche. Rima intesa come fenditura, buccale dal latino bucca, che è la guancia.

I social si sono scatenati. Alla rinfusa: «Più che un sorriso, una rima buccale», «Ma tu pensa, avevo una rima buccale e non lo sapevo!», «Rima buccale lo dici a qualcun altro». Da un punto di vista linguistico, niente da eccepire: espressione corretta, ipercorretta. E proprio per questo, inopportuna.

Ma è l’eterna, imperitura tendenza dei redattori istituzionali: parlare una lingua inutilmente sostenuta. Definitivo, sul tema, Calvino mezzo secolo fa, quando parlò di un’antilingua in cui i significati vengono allontanati, per paura di mostrare familiarità con ciò di cui si parla.

Trasparente e diretta dovrebbe essere la lingua di un documento operativo di tale importanza: concreta. Ma solo se si hanno le idee chiare, dalle rime buccali escono parole chiare.

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