Lettere al Direttore / Letta o non Letta? Unire i Riformisti!

di Tonino Armata

SAN BENEDETTO – Gentile direttore, Enrico Letta il #Pd ce l’ha nel cuore ma con l’hashtag davanti però, il dibattito al momento è ancora molto social. Per trasformarlo in realtà bisognerà aspettare almeno 48 ore, è questo il tempo che l’ex premier si è dato per “riflettere bene” e capire se potrà essere lui il successore di Nicola Zingaretti alla poltrona di segretario del Partito Democratico.

Il Pd lo avrebbe indicato come la persona più adatta a ricoprire il ruolo che solamente qualche giorno fa apparteneva al governatore del Lazio ma c’è anche qualcuno che ha buona memoria e vorrebbe evitare gli errori del passato.

Quel passato prossimo che meno di un mese fa ha portato nel governo Draghi tre ministri uomini in quota Pd e al Nazareno una spaccatura profonda. Una donna ora potrebbe essere la mossa perfetta in quell’ironia della sorte che vuole, per statuto, proprio tre donne aver ereditato temporaneamente la guida del partito. Sono la presidente Valentina Cruppi e le due vice, Debora Serracchiani e Anna Ascani, e per qualcuno una di loro dovrebbe essere la nuova segretaria. Dovrebbe ma difficilmente lo sarà.

Il dibattito sul rapporto tra fallimento della politica e fallimento dei partiti entusiasma pochi appassionati, ma la questione è tutta aperta e dirimente per la sorte della democrazia italiana. In passato le forze politiche e sociali utilizzavano queste occasioni per ripensarsi, aprirsi, rinnovarsi. Oggi queste sono le cose che scientificamente si evitano.

Dovrebbe far riflettere che ormai non esiste politica senza incarichi di governo. Anzi si minacciano cambi di casacca, se non si viene accontentati e la forza di un caporale di partito (che conta spesso più del suo segretario) si misura sulla capacità di soddisfare la propria tribù con nomine di governo e sottogoverno.

Occuparsi dei partiti è diventata un’incombenza di quart’ordine, in cui relegare i “trombati”. I partiti stessi consolidano i “patti di sindacato” interni sulla base della capacità e del potere di disporre e suddividere gli incarichi nella macchina pubblica (istituzionale o economica). Quest’ultima necessità non solo rischia di danneggiare l’azione stessa di governo, ma accorcia e restringe l’orizzonte della politica.

Che ceto politico può consolidarsi seguendo queste posture? Una scelta saggia sarebbe stata: “Lasciamo scegliere tutti a Mario Draghi e occupiamoci di politica senza incarichi di governo perché lo stato dei partiti è veramente disastroso”. Ma i partiti sono ormai veicoli da sfruttare per i propri interessi, piuttosto che forme di partecipazione democratica.

E sia chiaro: non è “occuparsi di politica” cercare alleanze di salvataggio, perché queste non salveranno nessuno da una crisi profonda, che non riguarda i singoli protagonisti, ma il funzionamento della democrazia italiana. Si vede con chiarezza: per troppi l’orizzonte massimo della politica è transitare indenni il 2023.

Quello che è evidente è che c’è una sinistra che si allea con i populisti e ce n’è una che si allea con le forze liberali, costituita oggi da troppe sigle e con mille personalismi che ne impediscono l’aggregazione.

La politica non è tutta uguale e proprio il “populismo democratico” è l’ossimoro di qualunque progressismo moderno. Non è il momento di mettere insieme confusione identitaria e valoriale e debolezza strategica, anche se consente per qualche tempo un po’ di potere per il potere.

È il momento di riconfigurare l’offerta politica italiana. Ripartiamo dal discorso di Draghi al Senato, sul ruolo e perimetro dello Stato, sull’ecologia, sui migranti, sulla riforma della Pa, sulla sfida dell’innovazione tecnologica e economica non come pericolo da esorcizzare, ma come banco di prova della capacità riformatrice e dello spirito sociale. Sono contenuti che non hanno maggioranza in Parlamento.

Sono le idee fondative del Partito democratico e che riguardano un’area molto più ampia. La parabola: centralismo democratico, correnti, caporalizzazione, sta segnando il default strategico dei partiti. Bisogna tornare a mettere insieme le persone che hanno ancora il gusto e la passione per la buona politica, quella fatta di idee diverse, confronto, esperienze, crescita personale.

A questo scopo penso all’idea di “Unire i riformisti”, per (ri)costruire quell’area liberale, democratica, popolare, socialista e europeista, cioè di quell’area magmatica e politicamente incompiuta, anche interna o contigua a partiti esistenti, che però rifiuta di rassegnarsi a un bipolarismo “sovranisti contro populisti”, Venezuela o Ungheria e a qualunque collateralismo in questo disegno.

Non servono forze “centriste”, servono forze politiche che comprendano la centralità di una nuova politica, in cui non basta evocare valori e contenuti studiati male, ma praticarli abitando la vita delle persone normali, i loro problemi e le loro aspirazioni. Ha ragione Draghi, l’unità, in questo momento, è un dovere, ma, aggiungo, è anche un’occasione irripetibile per cambiamenti radicali, rifondativi e rigeneratori.

Per questo, solo essere riformisti e centrali consente di essere veramente costruttori perché, più che la collocazione geometrica nella topografia politica nazionale, conta il coraggio, l’unica virtù che ti consente il metodo riformista, il suo necessario cammino, graduale ma inarrestabile, compositivo, riconciliativo ma mai ambiguo, che apra spazi non per propiziare somme di partiti, ma protagonismo popolare.

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