Lettere al Direttore / Quello che so di Dante, ricostruire la vita del poeta con un’istruttoria basata sulle testimonianze e sull’analisi dei documenti

di Tonino Armata

SAN BENEDETTO – Il giorno 8 aprile del 1973, quando lavoravo in Mondadori, ricevetti una busta con dentro dei fogli tipo A4 contenenti una breve biografia di Dante. La busta era chiusa, gialla (forse per la pioggia che aveva subito), affrancata da un bollo da 35 lire. Per ritirarla dovetti pagare 180 lire di tassa.

Il primo foglio intitolava: vita di Dante, stampato da una sola parte e impresso in caratteri frusti e poco leggibili, non aveva dedica ma conteneva una lettera d’accompagnamento. Proveniva dalla Sicilia. Dopo aver cominciato a leggere distrattamente, ma di essermi comunque ostinato per una sorta di sfida con me stesso, per vedere se le 180 lire che avevo dovuto pagare per errore valessero almeno la pena di una valutazione: sarà stata, in parte, ancora la suggestione della pessima scrittura; ma il fatto è che mi colpì in quei fogli un afflato, un raptus che mi facevano pensare alle pagine migliori di molti autori che si erano occupati di Dante o a Dino Campana, o a quei poeti gallesi – a Dylan Thomas, quando non scriveva da perfetto ubriaco.

Che cosa sappiamo della vita di Dante? Poco. Di norma le biografie sono narrazioni integrate ovviamente da documenti: in questo caso più che una narrazione abbiamo un’istruttoria, dove testimonianze e documenti sono vagliati uno per uno e spesso appaiono falsi o per lo meno dubbi.

Per introdurre la vita di Dante, si parte dalla scena di una celebre battaglia cui partecipò: «Sabato 11 giugno 1289, giorno di San Barnaba, l’esercito fiorentino che marciava attraverso il Casentino per invadere il territorio di Arezzo arrivò in vista del castello di Poppi, costruito su uno sperone isolato in un’ansa dell’Arno». La piana che si stende sotto il castello è quella di Campaldino. Il fatto di aver partecipato a quella battaglia (cosa che Dante ricorda nella Commedia) serve per stabilire la posizione sociale del poeta: di famiglia abbastanza antica e abbiente senza essere tra quelle più ricche (gli Alighieri erano per lo più usurai, in un’epoca in cui il contante era molto scarso) dunque in grado di mantenere e armare un cavallo.

Dante, nacque e visse fino a 35 anni in una città che per l’epoca era immensa: coi suoi 100.000 abitanti era una delle più grandi metropoli d’Europa». Ed era piena di cantieri che ne avrebbero cambiato il volto e che Dante non poté vedere ultimati: nel 1279 si cominciò a costruire Santa Maria Novella, nell’84 la Badia, nel ’95 Santa Croce, l’anno dopo Santa Maria del Fiore e nel ’99 Palazzo Vecchio.

Il contesto è eloquente. Ma che cosa fece Dante nei suoi primi trentacinque anni? Era abbastanza agiato da poter vivere senza lavorare, potendo contare anche sulle rendite dei poderi che possedeva. La sua principale occupazione era dunque lo studio cui si accompagnava la scrittura: la morte prematura a soli 25 anni di Beatrice Portinari lo indusse a scrivere un’epistola (perduta) ai notabili della città, come ricorda nella Vita nuova. Come si sa Beatrice lo aveva colpito quando era ancora una bambina, sarebbe stata per sempre la sua stella polare.

Dante partecipò anche alla vita pubblica della città, rappresentando i popolani di parte Bianca. Una volta votò contro la richiesta di papa Bonifacio VIII, che voleva dalla città un aiuto militare consistente in cento cavalieri. Nel 1301 Carlo di Valois entrò a Firenze con 1200 cavalieri: in breve rovesciò il governo dei Bianchi distruggendone case e proprietà. L’umanista Leonardo Bruni ricorda come anche le proprietà di Dante vennero devastate: «Gli fu corso a casa e rubata ogni sua cosa, e dato il guasto alle sue possessioni». Insieme ad altri Dante fu processato in contumacia e siccome non si era presentato, né aveva pagato la multa enorme di ben cinquemila lire, fu condannato al rogo.

Andava in esilio, lasciando a Firenze la moglie Gemma (parente di Corso Donati che era avverso ai Bianchi e quindi al sicuro) e i figli. Si parla di un figlio Giovanni e poi di Piero e Jacopo e anche di una figlia che volle chiamare Beatrice. Secondo Boccaccio il matrimonio con Gemma non era stato felice e lui mai la volle con sé nelle sue peregrinazioni. Ma Boccaccio era ostile al matrimonio in genere e dunque il suo potrebbe essere un pettegolezzo.

Per quel che riguarda gli ultimi vent’anni di vita, trascorsi in esilio, sono anni di cui sappiamo poco… non c’è quasi nessun documento che ci parli di lui. Questo non impedisce di inseguire Dante nei vari soggiorni di cui si ha notizia, da Bologna a Verona e poi a Ravenna, dove morì, forse di malaria, rientrando da una ambasceria a Venezia. Secondo Boccaccio andò anche a Parigi e vide di persona il famoso Vico degli Strami vicino alla Sorbona dove aveva insegnato Sigieri di Brabante incontrato nel X del Paradiso. Non è escluso che Dante sia stato davvero a Parigi. Del resto c’era andato il suo maestro Brunetto Latini, anche lui esiliato da Firenze. Dante lo incontra nell’Inferno, tra i sodomiti.

Durante l’esilio Dante sperimentò come sa di sale/lo pane altrui. Per sua fortuna era un intellettuale raffinato e poteva offrire i suoi servigi, per esempio nella stesura di lettere o documenti politici, al signore che lo ospitava.

Vorremmo saper di più circa il luogo (o i luoghi) in cui fu composta la Commedia, poema immenso che i dantisti hanno annotato da subito e non smettono di annotare. Ne diffido un po’ (almeno credo) quando li coglie in castagna. E l’ironia è un pregio non piccolo di questo saggio biografico che era difficile da scrivere e che è molto utile leggere per avvicinarci all’autore del poema. Un miracolo “divino” che però l’Italia ha impiegato qualche secolo per apprezzare appieno.

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