di Tonino Armata
SAN BENEDETTO – Egregio direttore, come presidente onorario dell’associazione Città dei bambini, ho ricevuto via e-mail il rapporto di un gruppo di ricercatori che collabora con la Commissione europea: “In Italia un’ora e mezza di ripasso in meno ogni settimana. Disuguaglianze aumentate, così si rischia una generazione con conoscenze e competenze inferiori”. Naturalmente il rapporto è stato girato all’Osservatorio permanente comunale infanzia e adolescenza di San Benedetto del Tronto, del quale, sono membro.
Scuole e professori spesso impreparati all’insegnamento online, meno ore dedicate dagli studenti allo studio, ma soprattutto la perdita negli alunni di motivazioni e stimoli per la mancata interazione tra compagni e con gli insegnanti in aula. Effetto coronavirus sull’istruzione. In Italia, come in Europa, dove per contenere il contagio si è scelto di chiudere le scuole.
Il fatto che gli studenti hanno già subito o subiranno una perdita nell’apprendimento lo ripetono da più parti gli esperti. Ed è una previsione anche del Rapporto “The likely impact of Covid-19 on education: Reflections based on the exisiting literature and recent international datasets”, appena pubblicato e scritto da un gruppo di ricercatori europei che lavorano presso il Centro Comune di ricerca della Commissione europea (i contenuti non sono attribuibili alle posizioni ufficiali della Commissione). Il paper cerca di indagare le motivazioni di questa perdita: perché gli studenti hanno fatto un passo indietro con l’insegnamento a distanza?
Purtroppo, nonostante l’utilizzo delle tecnologie online sia stato ed è importante nel garantire la continuità di istruzione agli studenti in emergenza, ci sono elementi di un sistema di istruzione tradizionale che si sono persi nel passaggio da offline a online. Mi riferisco, ad esempio, a quello che in inglese viene definito peer effects, ossia gli effetti positivi che derivano dall’interazione tra studenti nell’ambiente scolastico.
Gli studenti apprendono gli uni dagli altri, studiano insieme, si confrontano in aula, anche la competizione in positivo tra loro ha effetto sulla motivazione. Tutto questo è venuto meno nei mesi del lockdown, mentre è una parte importante nei processi di istruzione. Una perdita di motivazione esterna che è stata rilevante soprattutto per i bambini alla primaria.
Molte inchieste condotte durante il periodo della pandemia dimostrano come il tempo investito dagli studenti in istruzione durante il lockdown risulta inferiore a quello che normalmente avviene quando le scuole sono aperte. Nel corso della quarantena la maggior parte dei ragazzi ha speso tra le 2 e le 3 ore in attività di apprendimento ogni giorno, contro una media in tempi normali di 4-5 ore.
Secondo l’indagine “School Barometer”, condotta tra il 25 marzo e il 5 aprile e che ha coinvolto gli studenti tra i 10 e i 19 anni in Austria, Svizzera e Germania, lo studio settimanale si è ridotto dalle 4 alle 8 ore rispetto a quando le scuole sono aperte. Per gli studenti italiani si stima una riduzione di un’ora e mezza di studio in lockdown; in Francia si è passati dalle 5 ore a scuola in media (più una a casa per i compiti) alle 3,2 ore di studio complessivo.
Infine, è utile osservare come il coronavirus abbia colto molti istituti impreparati sotto il profilo dell’insegnamento virtuale. È un sondaggio, dunque da prendere come tale, ma i risultati della “School Education Gateway survey” rivelano che il 66,9 per cento dei docenti ha insegnato online per la prima volta a seguito della pandemia. L’indagine è stata svolta dal 9 aprile al 10 maggio in quaranta Paesi e ha coinvolto 4.859 persone.
Non solo ci sono stati ritardi, ma l’efficienza dell’insegnamento virtuale è stata inevitabilmente limitata dal fatto che tanti professori hanno insegnato online per la prima volta, magari non avevano un computer o accesso a internet da casa propria, sicuramente si sarebbero ottenuti migliori risultati se alle scuole fosse stato dato il tempo di preparare adeguatamente gli insegnanti, gli studenti e i genitori.
Una seconda conclusione dello studio è che il coronavirus potrebbe aver accresciuto il divario (peraltro già esistente) tra studenti di diversa estrazione sociale. I ricercatori usano il condizionale, ma il divario è acclarato. Le statistiche dimostrano come gli alunni più svantaggiati hanno una minore probabilità di aver accesso a internet o possiedono un computer in stanza e godono anche di un peggiore ambiente per studiare a casa, ad esempio non hanno una camera propria o una propria scrivania.
Prendiamo l’accesso al web. Secondo dati Eurostat, nella media europea nel 2019 ne era provvisto il 72 per cento degli studenti le cui famiglie hanno un reddito basso, contro il 98 per cento di chi ha alle spalle un contesto familiare economicamente avvantaggiato. Il divario è massimo per la Bulgaria (30 per cento contro il 98 per cento) e minimo per l’Olanda (94 per cento contro il 100 per cento).
Così per il possesso di un computer a casa: i risultati della rilevazione Ocse Pisa 2018 indicano che lo ha l’86 per cento degli studenti italiani con genitori nemmeno diplomati contro il 95 per cento di chi ha almeno un genitore laureato. Queste situazioni potrebbero aver rafforzato di disuguaglianza altri due fattori: i genitori più abbienti potrebbero aver fatto un ricorso maggiore a corsi online a pagamento per spingere i loro figli a dedicare maggior tempo all’istruzione durante il periodo di chiusura delle scuole; i figli di genitori provenienti da famiglie avvantaggiate hanno una maggiore probabilità di frequentare scuole private che potrebbero essere dotate di migliori infrastrutture tecnologiche rispetto alle pubbliche.
Conclusione? “Se non saranno adottate misure volte a rimediare alla perdita di istruzione subita dagli studenti durante il lockdown, il protrarsi di questa situazione potrebbe avere importanti conseguenze nel lungo termine. Gli studenti di oggi infatti si affacceranno sul mercato del lavoro con un livello di conoscenze e di competenze inferiore a quello che avrebbero avuto se non ci fosse stato il coronavirus”.
Non solo. A livello macroeconomico, ciò potrebbe comportare un declino della produttività, dell’innovazione e quindi effetti negativi sull’economia. A livello del singolo individuo, le sue prospettive occupazionali potrebbero subire dei danni, per esempio in termini di un salario un po’ più basso o di una minore probabilità di trovare lavoro.
Determinante per la vita è la connessione, come l’acqua o il cibo. Forse esagero un po’, ma la connessione a internet ha un forte impatto su attività come l’istruzione, la sanità, la lotta alla povertà, la possibilità di creare lavoro. Ecco, l’istruzione è in cima ai miei pensieri. Scoppiato il Covid, si è reso evidente il problema del diritto umano: di questo appunto stiamo parlando. Ci sono bambini “staccati” che non hanno quindi gli stessi diritti di coloro che hanno la connessione.
Per ultimo dico: care bambine, cari bambini, cari adolescenti, se siete meno capace di esprimervi se non siete interconnessi, la “Internet connectivity” deve essere intesa come diritto umano, questa è la posta in gioco oggi.