di Martina Oddi
SAN BENEDETTO – Imperversa in Libia la guerra tra le due fazioni contrapposte: da una parte Haftar e dall’altra al-Serraj, che raccolgono nei loro schieramenti il mondo diviso in due. Divisa la diplomazia Europa con la Francia che si vuole imporre come garante, divisa la Lega araba, diviso il mondo. Che oltre alle divisioni tra est e ovest che gli incauti approcci di Trump stanno riproponendo, i conflitti dimenticati, deve fare i conti con quelli esplosi: Palestina , Siria, Yemen, Sudan, e con essi la Libia.
Com’è la situazione in Libia? Lo chiediamo a Foad Aodi, presidente della comunità araba in Italia.
“Purtroppo la situazione è molto peggiorata perché non se ne parla ma il numero morti sale: 770 (di cui 220 donne e 180 bimbi) 5250 feriti di cui 2100 gravi e più di 100.000 sfollati. Negli ospedali, che sono al collasso, mancano tutti gli strumenti chirurgici, i nostri medici in struttura e sul territorio ci segnalano una emergenza gravissima. Si registrano violenze sulle donne e si è acutizzato il reclutamento dei minori in battaglia. I centri di detenzione sono strapieni, e fanno registrare condizioni disumane fino alla tortura.
Quali sono i problemi più immediati da risolvere?
“Risolvere la questione umanitaria e sanitaria drammatica, noi lanciamo un grido per aiutare gli ospedali, manca il sangue. E sono stati colpite anche le centrali elettriche e dell’acqua, c’è un reale rischio di epidemia”.
Come si può fermare l’escalation di morti e rifugiati a livello internazionale e cosa può fare l’Italia?
“La diplomazia internazionale è ferma tra i sostenitori dell’uno e dell’altro, noi siamo per il sostegno alla popolazione: la situazione peggiora di giorno in giorno con gli schieramenti contrapposti e entrambi portano avanti gli interessi di parte. Anche gli arabi sono divisi, così gli occidentali, come sempre quando ci sono interessi economici in gioco come il petrolio. Noi chiediamo alla comunità europea e all’Onu di intervenire: non ci sono invece risposte diplomatiche. Ma è fondamentale: bisogna stabilizzare la Libia. Combattere l’immigrazione irregolare e il mercato degli esseri umani, la corruzione nelle polizie di confine; fermare le violenze su donne e bambini, nei campi di detenzione.
L’Onu ha ancora qualche peso?
“Siamo di nuovo di fronte alla guerra fredda tra Stati Uniti e Russia, questo è lo scenario. Poi ci sono gli inter conflitti europei come quello Francia-Italia in Libia. La lega araba è divisa, ognuno porta avanti i propri interessi individuali. La diplomazia internazionale fa un gioco di rimessa, ma l’Onu e l’Unione Europea proprio per questo potrebbero avere un ruolo determinante”.
A livello globale, quali sono i paesi più a rischio?
“I cosiddetti conflitti dimenticati, ormai si fa un gioco diplomatico di interessi che va a schiacciare i diritti umanitari, più di 85.000 bambini sono morti nello Yemen nel conflitto infinito. Poi ci sono la Palestina, la Siria, il Sudan, la Somalia: tutti contesti di guerriglia permanete che stanno lacerando le popolazioni”.
Quale sarà la vostra proposta?
“Noi chiediamo una legge di immigrazione europea basata su diritti e doveri e una politica diplomatica forte basata su due binari paralleli, sicurezza e integrazione. Finché il fenomeno viene strumentalizzato sembra un’invasione ma non è così, stiamo assistendo a un’azione mediatica per alimentare il pregiudizio verso i migranti. Impariamo dal Libano e dalla Giordania, che soccorrono ogni anno milioni di profughi. Occorre combattere la migrazione irregolare, attivare i rimpatri non a rischio. E poi aiutarli a diminuire le partenze creando lavoro e economia a casa loro”.
Mentre il capitano della Sea Watch rischia l’incriminazione il dibattito imperversa sull’art. 31 che stabilisce come il primo porto a cui si rivolgono i profughi è tenuto a coordinarsi con gli stai membri dell’Unione per prestare soccorso e garantire l’accoglienza. Intanto nel cuore del Mediterraneo la Libia continua a contare i morti, i feriti e chi ha perso tutto che si ritrova nei centri di detenzione in attesa di una partenza subordinata alla resistenza a violenze, torture e a volte anche alla morte.