Vincenzo Di Bonaventura incanta tutti con l’ Orlando Furioso

di ALCEO LUCIDI

SAN BENEDETTO – Si è concluso il ciclo di incontri dell’attore Vincenzo Di Bonaventura sui grandi classici della letteratura mondiale trasposti in forma teatrale, inseriti all’interno del fitto calendario di appuntamenti culturali dell’Associazione “Blow Up” di Grottammare presso il Teatro Comunale dell’Arancio.

Non poteva esserci conclusione più degna e sintomatica di tutto un modo di affrontare il “cimento” teatrale a cui Di Bonaventura non corso del tempo – sono ormai oltre trent’anni di onorata attività del suo “Teatrlaboratorium Aikot” a livello locale – ci ha abituati. Teatro alto, impervio a tratti, testimoniale che agisce per sottrazione, ossia – come avrebbe detto Carmelo Bene, uno dei maestri riconosciuti del Di Bonaventura – disimparando per imparare un suo nuovo gergo espressivo, per assimilare un nuovo lessico, nell’urgenza della parola poetica, spesa nel qui e nell’ora del suo farsi incarnazione di un orizzonte di speranza.

Venendo a noi, l’Orlando Furioso, nelle mani dell’attore abruzzese, ha riacquistato le movenze affusolate, le sinuosità musicali, le spericolatezze della versificazione che Ludovico Ariosto – un dignitario e diplomatico della corte di Alfonso I di Ferrara – volle assegnare al suo poema. Composto in oltre trent’anni, dal 1504 fino alla morte del poeta nel 1532, il monumentale componimento consta di quarantasei canti, tre edizioni ed una miriade di ottave – l’unità metrico-prosodica di riferimento – che, a seconda dei casi e delle necessità narrative, si dilatano prepotentemente, a dismisura, con effetti di assoluto policentrismo stilistico (fino a 199 per un canto).

Non solo, ad ogni modo, la mobilità del verso, reso sapientemente “errante”, come ebbe a dire uno dei più acuti commentatori del “Furioso”, quell’Italo Calvino profondamente legato all’andamento “a linee spezzate, a zig-zag” dell’opera ariostesca, tanto da riprenderne il cambiamento  “di piani, di prospettive del racconto”, l’alternanza repentina e spiazzante di registri (sublime, eroico, lirico o prosastico, ironico, scherzoso), il “gioco” di incastri e di ritmi narrativi nei suoi lavori più sperimentali (Il castello dei destini incrociati, Le città invisibili), ma la debordante materia di trattazione che copre qualcosa come cinque secoli: dall’ottavo al dodicesimo.

La tradizione da cui Ludovico Ariosto attinge a piene mani, in effetti, va dall’avvenimento storico della rotta di Roncisvalle del 778 (“episodio oscuro e sfortunato”), in cui la retroguardia dell’esercito franco di Carlo Magno, guidata dal valente cavaliere Orlando, di rientro dall’assedio di Saragozza caduta in mano ai mori, venne accerchiata e distrutta dalle popolazioni basche sui Pirenei a causa di un tradimento, fino alla definitiva sistemazione letteraria della vicenda attraverso i sontuosi affreschi dei cicli epici medievali. A dimostrazione della fortuna riscontata nelle corti europee (Italia, Spagna, la stessa Francia), e, più in particolare, in quella ferrarese, la più reattiva in tal senso, con un’aristocrazia dotta, brillante, sfarzosa, l’inziale riadattamento della vicenda – la famosa Chanson de Roland, per mano di tale Turoldo, uno dei tanti giullari di corte del tempo, affabulatori e “poeti-cantastorie”, peregrinanti di castello in castello – assume, all’epoca delle Crociate a Gerusalemme, i contorni di una simbolica lotta per la fede tra cristiani ed infedeli.

Così, fra elmi e corazze scintillanti, duelli ed incantesimi, fughe e ricongiungimenti, si consuma la storia d’amore tra il paladino Orlando e l’eterea Angelica. Un amore più che mai impossibile nella Chanson de Roland, per la castità del cavaliere che non osa neppure toccare l’oggetto idealizzato del proprio amore, nella migliore tradizione cortese, ed invece perennemente ostacolato nel caso dell’Ariosto, a cui, del resto, più che i moti interiori o l’enfasi retorica dell’epica cavalleresca, interessano i profili spirituali dei personaggi, “il vario movimento delle energie vitali”, l’espansione nel tempo e nello spazio della trama nelle più svariate direzioni, la moltiplicazioni degli snodi narrativi, riflesso – potremmo dire – del complicato quadro politico-militare del Cinquecento italiano.

Di Bonaventura ha ripreso per la sua esibizione, con il tono sfavillante dei bardi medievali, ben tre scene: il proemio, in cui Ludovico Ariosto rende omaggio ai suoi committenti – gli estensi e, soprattutto, il cardinale Ippolito, fratello del duca Alfonso –, la fuga di Angelica con la contesa amorosa tra Orlando e Rinaldo e, buon ultimo, la pazzia del “furioso” Orlando (non più l’”Innamorato” del Boiardo) il quale, scoperta la relazione sentimentale della principessa catara Angelica con il fante Medoro, cade in uno stato di prostrazione e si dispera arrivando a denudarsi. Siamo ormai all’anti-epica nella proliferazione del dettaglio, “gioco” a cui lo scrittore deve ad un tratto sottrarsi per non tediare il lettore.

Il crescendo vocale veramente unico del finale di Vincenzo Di Bonaventura, frammisto ai commenti fuori campo dell’Ariosto, ha reso tutto il sapore e, direi, la potenza evocativa, di un testo ponderoso, polifonico, tentacolare, autentico capolavoro della letteratura italiana.

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