di Antonio De Signoribus
SAN BENEDETTO – “Se tutti i proverbi- affermava Niccolò Tommaseo-si potessero raccogliere e sotto certi capi ordinare, i proverbi di ogni popolo, di ogni età, colle varianti di voci, d’immagini, di concetti, questo dopo la Bibbia, sarebbe il libro più gravido di pensieri”.
I proverbi contenevano, insomma, la filosofia del popolo ed erano, come disse anche lo studioso marchigiano Giovanni Crocioni “la parte più viva e operante della letteratura popolare marchigiana”. Eccone alcuni raccolti nelle Marche. Lo studio dei proverbi viene chiamato paremiologia, dal greco paroimia (similitudine), poiché il proverbio ricorre al linguaggio figurato.
Ricchissima è la letteratura proverbiale. Il tema scelto, per questa prima incursione nei nostri proverbi, è l’alimetazione, il tema forse più importante. Il cibo, che i proverbi mettevano più in risalto, era la polenta che si consumava spesso. Un distico molto noto raccolto da Giacomo Leopardi non lasciava alcun dubbio:”Il contadino fatica e mai non lenta, e il miglior pasto suo è la polenta”. Oppure si diceva:“Il povero contadino fatica e stenta per farsi una mangiata di polenta”. Si lavorava, insomma, tutto il giorno spesso per un piatto di polenta, che “sazia sì ma non accontenta”; nel senso che saziava subito la fame ma era di breve durata perchè lo stomaco si svotava subito.
Una raccomandazione era, comunque, indispensabile nel prepararla, perché “la polenta quando è buona va iniziata quando suona”, ovvero si doveva versare molto lentamente la farina di mais nel paiolo, quando l’acqua bolliva. Un altro alimento che non doveva mancare mai era la carne del maiale, di cui non si buttava via niente. L’allevamento di questo indispensabile animale era, infatti, una occupazione molto importante nella famiglia contadina. In genere veniva ucciso tra dicembre e gennaio, poi la carne veniva salata secondo tecniche antichissime, e consumata con parsimonia per tutti i mesi successivi. Se mancava era un triste presagio:“Chi di Sant’Antonio non compra il porco, tutto l’anno va con il muso storto”.
E la fame era talmente forte che si mangiava di tutto pur di sopravvivere: “Quello che non strozza ingrassa”. Ma anche per diventare belli:”Ogni bellezza dalla bocca entra”. Nelle cerimonie nuziali tra campagnoli non doveva, però, mancare nulla,nemmeno il riso giallo, altrimenti il pranzo non era apprezzato:”Il pranzo degli sposi non è bello, se ci manca un po’ di riso giallo”, ovvero condito con lo zafferano.
Il vino era il grande amico del contadino che non amava assolutamente l’acqua, nemmeno durante i lavori più importanti che si facevano in campagna, perché “l’acqua fa crollare i fossi;mentre il vino fa le guance rosse” segno che si stava in buona salute. Insomma, il vino, “Che era la poccia dei vecchi” allontanava anche il medico:” Se vuoi vedere il medico dalla finestra, bevi un bicchiere di vino prima della minestra”. Oppure “uovo di gallina e vino di cantina sono la migliore medicina”. Era meglio,insomma, “puzzare di vino che d’olio santo”, perché “a morire e a pagare c’è sempre tempo”.