Lettere al Direttore / Italia-Austria 2-1, la classe non è acqua

di Toninio Armata

SAN BENEDETTO – Gentile direttore, l’Italia si era persa nel tempio. Wembley era diventato un labirinto, senza più la bussola delle certezze del trittico romano, contro un’avversaria poco celebrata: l’Austria postmoderna del pragmatista Foda. Ai supplementari gli azzurri, riemersi da notevoli patemi, sono stati rimessi dentro l’Europeo da un geniale colpo di Chiesa, propedeutico al guizzo del 2-0 di Pessina, ripescato a poche ore dall’inizio del torneo per la rinuncia forzata a Sensi e ormai goleador conclamato.

Non è mancato il brivido finale: il neoentrato Kalajdzic ha beffato Donnarumma. Ora la Nazionale andrà a Monaco di Baviera, per tentare il ritorno a Londra in semifinale: la attende il Belgio di Lukaku o il Portogallo di Cristiano Ronaldo e servirà ben altro, anche se ieri Mancini ha aggiornato i record di imbattibilità difensiva (1169 minuti, superato Valcareggi) e di imbattibilità in generale (31 partite, staccato Pozzo).

Sul prato inglese nessuno si è inginocchiato per protesta contro il razzismo, ma anche dopo Alaba e i suoi compagni sono rimasti in piedi. Il timbro sulle gerarchie è stato cancellato con successo in corso d’opera: sono stati appunto i cambi a decidere la serata. In partenza Berardi aveva scalzato Chiesa e Verratti si era ripreso il posto occupato pro tempore da Locatelli, mentre Di Lorenzo e Acerbi rimpiazzavano gli infortunati Florenzi e Chiellini.

Pareva l’inno al senso di Verratti per il gioco corto, in collaudato tandem col primo regista Jorginho. Invece l’Austria di Foda ha posto questioni tattiche inedite. Più del consistente pressing, dribblato con le eleganti uscite d’arte varia dal bracconaggio coordinato da Sabitzer, ha creato problemi la robusta opposizione dei molti giocatori della Bundesliga. La Nazionale ha frugato nelle sue superiori risorse tecniche, col moto perpetuo di Verratti e con gli strappi di Spinazzola, che lo scafato Lainer subiva con disappunto.

Hanno funzionato poco le digressioni a destra di Berardi contro il celebrato Alaba. Gli accentramenti in rifinitura di Insigne assecondavano la spinta di Spinazzola, mentre Barella s’infilava con tenacia in ogni corridoio possibile. Costretto al fraseggio stretto, Immobile denunciava vaga idiosincrasia alla materia. È stata sua, comunque, la più riuscita estemporaneità: il destro sull’incrocio, dopo mezz’ora. 

Una partita quasi tutta sbagliata. Ma i cambi, tutti giusti. L’Italia Uno si è fatta azzannare lungamente, l’Italia Due l’ha risolta con la maggior tecnica, proprio quella che non si era mai vista nei 90’. Svaniti palleggio, gioco corto ed esuberanza d’attacco. Ma il teorema di una squadra multipla trova conferma nella moltiplicazione dei titolari e delle soluzioni.

Però abbiamo visto il lupo nel bosco, e per poco non ci mangiava. Quasi niente Verratti e Barella? Ci pensa Pessina. Molto poco Berardi? E che problema c’è, se abbiamo Chiesa. La qualità è paziente, ed è liquida. Per la prima volta in vera difficoltà, salvata dal fuorigioco di un ginocchio e da un altro offside prima di un probabile rigore austriaco, la Nazionale ha saputo recitare un copione diverso e scritto in sanscrito, non era facile leggerlo e interpretarlo. Gli azzurri si sono modellati alla distanza sul calco di problemi che parevano insolubili, e con una certezza: Mancini non ha soltanto un formidabile centrocampo, ne ha due, e almeno tre ali.

Che il play sia doppio oppure singolo, gli incursori e i martellatori possiedono classe e corsa. Senza dimenticare il numero da circo di Chiesa, che nella Juve sta giocando così da un anno, quasi meglio di Cristiano Ronaldo: senza quell’invenzione nella palude (stop, destro, sinistro) forse ci saremmo impantanati. Invece la qualità paga, anche se non era scontato.

La duttilità azzurra diventa il vero argomento di un Europeo che ora comincia una terza volta, dopo le gioie iniziali e la grande paura: Lukaku è il prossimo confine di una squadra alla quale mancava giusto l’esperienza del buio.

Superata, non di slancio ma con il metallo pregiato della miniera scavata da Mancini in tre anni. Quello di sabato era il primo dentro o fuori dopo un’eternità, contro un avversario rognosissimo. Averlo risolto così è il conforto più grande. Siamo stati a lungo in ginocchio, e non ce l’aveva chiesto nessuno. Poi ci siamo rialzati. Sul resto, meglio tacere.

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