Lettere al Direttore / L’ Italia divisa si unisce nell’ urlo del gol

di Tonino Armata

SAN BENEDETTO – Gentile direttore, dell’importanza dello sport (non la pratica ma lo spettacolo, il rito televisivo) nella società di massa si è scritto così tanto, nel bene e nel male, che riesce difficile aggiungere qualcosa. 

Ma nella famosa società liquida, dove pare che ognuno viva smembrato dagli altri, con il suo palinsesto tascabile, e pare che di solido, e di collettivo, sia rimasta solo la paura del virus, fa ancora più spicco l’euforia corale di questi giorni. 

Ero davanti la tv, quando Jorginho ha infilato in rete il pallone che vale la finale europea. E si è sentita e si è vista la città (come ogni altra in questo paese) prima trattenere il fiato e poi esplodere all’unisono, sparare in alto tutto il suo fiato, quartieri alti e quartieri bassi, bei palazzi lustri e condomìni spellati, piazze di movida e strade buie, questa è San Benedetto. E pochi fuochi, pochi mortaretti, come se bastasse la voce umana a riempire la volta del cielo. Eccome se bastava. 

A poco vale chiedersi, magari con qualche sconforto, quali altre cause superiori, quali culture civiche, quali battaglie ideali uniscano altrettanto l’Italia – e tanti altri Paesi. Il fatto, concreto come le città che lo descrivono e lo accompagnano in una straordinaria unità temporale e sentimentale, è questa pulsazione corale, interclassista, l’esultanza e l’imprecazione che nello stesso preciso istante uniscono il professore e l’operaio, la manager e il disoccupato, i vecchi e i ragazzi, le classi sociali o meglio i loro frantumi, le fisionomie politiche o meglio i loro residui. 

C’è una inevitabile retorica della guarigione, in questo luglio calciomane che riempie le piazze in una lunga fiesta quasi promiscua, con qualche prudenza, qualche ferita da gestire, ma una complessiva sensazione di sollievo. Con il calcio che contagia anche il tennista Berrettini, il quale, ha l’ottima idea di gemellare Wimbledon con Wembley. E gli azzurri del basket che vincono a Belgrado e tornano olimpici. 

Dei tanti altri riti di massa nuovamente disponibili (le vacanze, la movida, il ritorno al convivio nei ristoranti, nei caffè, nelle case), nessuno è in grado di mettere in sincrono il Paese come lo sport. Non si va in vacanza tutti insieme e tutti sotto lo stesso ombrellone, non si va a mangiare tutti quanti nello stesso ristorante. Si grida “gol!”, invece, tutti insieme e tutti nello stesso posto: l’immenso stadio diffuso che è la cronaca televisiva di una partita di calcio.

E lo sentiamo, questo “tutti insieme”, questo battito della stessa ora e dello stesso minuto uguali per tutti, come qualcosa di speciale e di sempre meno scontato. Perché ci stiamo abituando alla solitudine (anche grazie ai tanti mesi di quarantena), qualcuno scoprendone anche i comfort; ed è la società nel suo complesso, comunque, che specializza le attività, separa gli orari, disperde le attitudini negli infiniti rivoli del lavoro parcellizzato o precario o distanziato. 

Finché ti ritrovi, una sera d’estate, scaraventato in un coro lungo e largo centinaia di chilometri, milioni di persone che non conoscerai mai e molte delle quali non sopporti e non ti sopportano; ma ti lasci travolgere dalla baraonda, ti senti folla e non è un brutto sentirsi, dopo tanto isolamento e tanti pensieri consumati davanti al muro di una stanza. 

Ci sono gli indifferenti, con i quali mi scuso: ma capiranno anche loro l’importanza di una cosa che unisce prodigiosamente tutti i pezzi non solo dell’Italia, ma di mezzo mondo (gira sui social una fantastica telecronaca araba del gol di Jorginho, con il telecronista, inebriato, che canta Bella Ciao…). 

Non sono tantissime le occasioni per sentirsi mondo, e nemmeno per sentirsi Italia. Serve un poco di pazienza per sopportare il patriottismo schiamazzato, la caciara in eccesso, le tonnellate di luoghi comuni – qualcuno, sicuramente, anche in questo articolo. Serve però anche un poco di senso della realtà per ammettere che sì, è proprio così: un gioco – questo gioco, undici contro undici in un campo di 105 metri per 68 – può essere così potente da unire, per qualche sera, un popolo che prima e dopo la partita nemmeno sa di esserlo.  

GLI ADOLESCENTI IN PIAZZA DOPO IL LOCKDOWN. IL RITO DI CRESCITA TRICOLORE 

Le immagini delle piazze d’Italia, invase da corpi sudati e gaudenti e urlate da trombette e trombe da stadio, hanno mostrato, all’interno di una rappresentazione ben conosciuta, un significativo elemento di novità. La “discesa in campo” militante e tonitruante di tantissimi adolescenti. Per valutare il senso di quanto è accaduto, è opportuno un passo indietro.

Veniamo da una lunga fase di malinconia collettiva, di mestizia sottile e diffusa, di afflizione cheta eppure insidiosa. La pandemia ha indotto nelle giovani generazioni un atteggiamento oscillante tra remissività e amarezza. Come è noto, quelli sono gli anni dell’esplosione vitale, quando tutto sembra possibile e raggiungibile, e toccabile con mano: la fase della gioia di vita, intuita, poi addentata e assaggiata, quindi golosamente assaporata.

Certo, non vale per tutto e per tutti: l’adolescenza e la prima giovinezza sono anche la stagione delle contraddizioni più acute e delle disillusioni più crudeli, delle mortificazioni più umilianti e delle fobie che più generano incubi. E, tuttavia, resta — nei Paesi occidentali e per le fasce sociali non povere — l’età dell’oro. Almeno fino a quel febbraio del 2020.

Poi, si manifesta quel processo di “immalinconimento”. Il lockdown, il distanziamento sociale, il coprifuoco, la didattica a distanza, la chiusura anticipata dei locali e, soprattutto, l’interdizione dell’assembramento, che è, poi, la più naturale forma di esperienza di sé e degli altri, del proprio e dell’altrui corpo: tutto ciò ha avuto un effetto, alla lettera, narcotizzante. È come se avesse attutito i suoni, smorzato le luci, sbiadito i colori, in una parola, intorpidito e illanguidito la vitalità.

E, più in profondità, è come se avesse ridotto le aspettative e mortificato le attese (anche culturali, sociali e lavorative) di queste stesse generazioni. È qualcosa che si sconterà, fatalmente, sul medio e lungo periodo e che richiede una grande opera di pedagogia collettiva e di terapia sociale da parte degli adulti e delle generazioni anziane (sempre che queste ultime, a loro volta, siano sopravvissute allo stress psicologico). Rispetto a tutto ciò, cosa ci dice la presenza così estesa e rumorosa, così scandalosa e sfrontata di quei giovanissimi nella notte dell’Italia campione d’Europa?

Intanto, non esageriamo. L’esplosione della felicità agonistica è fenomeno analizzato ormai da quasi un secolo (Johan Huizinga scrisse il suo “Homo ludens” nel 1938); e in molti Paesi il calcio è, notoriamente, un linguaggio di massa capace di comunicare, meglio di tanti altri media, i sentimenti collettivi: le angosce sociali, così come le pulsioni di rivalsa e di riscatto.

In questa circostanza, quel linguaggio ha funzionato come una sorta di canale via via ostruito dai detriti e dai residui, dalle tossine e dagli inquinanti rilasciati da questo lungo tempo di claustrofobia e di promiscuità coatta, di detenzione domestica e di intimità obbligata. E, così, l’esplosione, quando il tappo infine è saltato, è apparsa dirompente. Le “camerette” dei ragazzi — unico “rifugio in un mondo senza cuore” (per parafrasare Christopher Lasch) — sono diventate, da covi dove vivere la propria clandestinità familiare, presidi di abbandonica resistenza.

Ciò ha prodotto qualcosa di simile a un rattrappirsi emotivo e a un anchilosarsi del tono dell’umore che ha fatto corrispondere alla vita sedentaria una inevitabile neghittosità e una suadente pigrizia. Il fuoco non poteva non covare sotto la cenere, considerato che quella è la stagione delle accensioni rapide, degli incendi subitanei, delle ustioni leggere e delle scottature che segnano appena la pelle.

E anche dei fuochi fatui. Dunque, esiterei a dire che i botti dell’altra notte abbiano rappresentato addirittura un “rito di passaggio”, categoria che, nel suo significato essenziale, indica le cerimonie destinate a scandire le discontinuità fondamentali nell’esistenza degli individui e dei gruppi.

Quindi, asteniamoci dal dipingere, per l’ennesima volta, affreschi e scenari che annunciano trasformazioni “epocali”. Potremo evitare, in tal modo, di doverci ricredere a distanza di ventiquattr’ore: e indignarci perché quegli stessi ragazzi, dopo aver goduto di una notte di festa, comincino a pensare che, forse, se ne meritino molte altre.

E senza mascherina.

Commenti

commenti

Articoli Correlati

Loading...