Lettere al Direttore / L’Europa siamo noi: la sfida fra Italia e Turchia ha aperto Euro 2020 e ha riportato il grande pubblico negli stadi

di Tonino Armata

SAN BENEDETTO – Egregio direttore, l’Europa siamo noi, ce l’abbiamo sotto casa. Ovunque andrà il pallone, almeno per una sera, non sarà mai troppo lontano. Con questa idea Platini (nel 2012) scelse la formula itinerante, quasi seguendo la traccia dei film di James Bond che esaltano tradizioni e bellezze. Da ieri sera si gioca; con un po’ di pubblico, ma a Budapest in Ungheria c’è piena libertà (allo stadio).

È un ritorno alla quasi normalità, per un’Europa diversa e dai confini molti larghi, unita e disunita, con l’Inghilterra della Brexit fuori, ma con la finale dentro Wembley, a Londra. Europei per la seconda volta a 24 squadre, con 26 convocati (al posto di 23), con 5 sostituzioni (al posto di 3), con il Var. Gli stadi torneranno ad avere la loro voce, una colonna sonora collettiva. Torna il tifo, per molti il dodicesimo uomo, quello che spinge quando non ne hai più, quello che fischia quando si sente tradito o magari fa pernacchie.

Avrà la stessa voce o il virus l’avrà cambiata? Può essere che l’anno di astinenza abbia peggiorato le corde vocali e intellettuali di chi vomita insulti. Oppure la disintossicazione porterà ad apprezzare corpi e cuori che meritano dignità e rispetto. C’è chi è rassegnato a un tifo vintage e chi se ne augura uno nuovo. Ritorno al passato o al futuro? Con la speranza che lo sport possa essere non un barcone ma un’arca di Noè su cui condividere le nostre diversità.

Sono Europei, ma invece di star fermi in un Paese, si parte da Roma per arrivare a Londra, passando per Baku, San Pietroburgo, Bucarest, Glasgow, Siviglia, Monaco, Copenaghen, Amsterdam, Budapest. Undici città che nel calcio (e non solo) hanno storia, ma nazionali che hanno radici che si mischiano e si allungano altrove. Le squadre nate in casa non ci sono più. Migrazioni, guerre, fame, incroci di vite e dei sentimenti, velocità di spostamenti, scelte multiculturali (l’Erasmus del pallone), hanno cambiato il continente del calcio.

Più del 10% dei giocatori convocati non sono nati nei Paesi per cui giocano. L’Italia ha i «brasiliani» Jorginho, Emerson Palmieri e Toloi, la Francia ha Marcus Thuram che è nato a Parma, l’Inghilterra ha Sterling, da Kingston, Giamaica, la Turchia Calhanoglu, da Mannheim, Germania, la Svizzera Shaqiri del Kosovo. Il calcio ha una sua fluidità, non solo per convenienza, ma anche per affinità elettive: con un passaggio si può provare a fare pace con quello che la famiglia ti indica come nemico.

È un continente che vorrebbe essere gli Stati Uniti d’Europa ma dove Luis Enrique, ct della Spagna, ammette: «Non credo ci sia ancora un piano vaccinale per la squadra»; dove l’Ucraina ha messo sulle maglie lo slogan «Gloria ai nostri eroi» e ha irritato la Russia e la Uefa in quanto «messaggio di chiara natura politica»; dove il primo ministro ungherese, Viktor Orbán, ha preso le difese dei suoi connazionali che hanno fischiato i giocatori dell’Irlanda quando si sono inginocchiati in campo contro il razzismo, perché «gli ungheresi si inginocchiano solo davanti a Dio, al loro Paese, e quando fanno una proposta di matrimonio».

È stato un anno triste e assurdo, dove ogni respiro era una minaccia, l’Europeo itinerante come un circo, ma testato e vaccinato, dovrebbe far passare la paura e far tornare la voce. Anche alle donne. Per la prima volta, proprio stasera a Roma, a bordo campo ci sarà la francese Stéphanie Frappart, designata come quarto ufficiale. Finalmente un po’ di normalità. 

In Italia nessuno gioca come l’Italia: una squadra che attacca semplicemente sempre. La natura atipica e profonda di questa macchina si conferma subito ed è un bene, è la cosa migliore nella dolce serata romana perché la prima partita bisogna proprio vincerla, o magari stravincerla così, poi il destino s’incurva e scivola meglio. Il cammino è già come lo volevamo e c’è stato appena un po’ da soffrire, una cinquantina di minuti di pazienza e ingiustizia (quel rigore non dato: prima o poi ci spiegheranno quanto pesa una mano, quanto ingombra un braccio, che differenza fa un bicipite tra il campionato, la Champions e un Europeo).

Poi abbiamo dilagato con la bellezza del gioco, l’unica qualità che non può mai tradire. Ma prima della bellezza c’è la fedeltà: e l’Italia di Mancini è fedele alle sue certezze, vuole giocare ogni palla, fare ritmo nel mezzo, muovere quasi tutti a girandola e percuotere ai lati. E qui la scelta di Berardi, preferito a Chiesa che è uno dei migliori dell’ultimo campionato e il più bravo in assoluto nella Juventus, ha pagato. Il percussionista del Sassuolo ha prodotto lo sventurato autogol di un altro juventino, Demiral, povero, lui che in questo stadio si era sfasciato un ginocchio.

Da lì in avanti è stata la squadra azzurra che dev’essere, cioè una spinta corale a portar palloni verso i due sultani dell’area, il gigante e il bambino, il centravanti e il 10: che abbiano segnato entrambi è anche un augurio, perché Insigne e Immobile sono il valore assoluto di un gruppo senza il fenomeno, ma con tanti in grado di creare la giocata fenomenale.

La cosa bella della Turchia è il punto di rosso della maglia, un rosso Liverpool o Bayern sfolgorante. Il resto, però, risale al giurassico. Una difesa di pietra, che rotea la clava lentamente. Cavernicoli rognosi, potevano farci sbattere contro il muro se non avessimo avuto la pazienza della fiducia e la lucentezza dell’idea. Ora la Svizzera, altra sfumatura di rosso. Ma noi dobbiamo solo essere come siamo.

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