Lettere al Direttore / Ricordare la Casa della cultura slovena Narodni Dom

di Tonino Armata (presidente onorario Città dei Bambini)

SAN BENEDETTO –  Gent.mo Direttore, mi son dovuto occupare della Casa della cultura slovena Narodni Dom mentre lavoravo nella città di Trieste per le ricerche di materiale iconografico e informativo per la pubblicazione del libro sui forni crematori della “Risiera di San Saba”, poi pubblicato dalla Mondadori nel 1979. Pertanto, ritengo che ha avuto una straordinaria importanza simbolica e civile la visita a Trieste dei presidenti italiano e sloveno, Sergio Mattarella e Boris Pahor, con l’omaggio a luoghi del dolore che in quest’area segnano profondamente memorie differenti e contrapposte.

Rende esplicita la convinzione condivisa che non si può costruire realmente l’Europa senza riconoscere e assumere in sé i differenti vissuti e dolori delle tragedie e delle lacerazioni del Novecento. È significativa l’occasione stessa della visita: la restituzione alla comunità slovena del Narodni Dom, la Casa della cultura slovena incendiata dai fascisti il 13 luglio di cento anni fa.

E la stessa, alta ispirazione segna il comune omaggio ai due contrapposti simboli di memoria di Basovizza: da un lato il luogo dove furono fucilati nel 1930 quattro militanti dell’organizzazione antifascista clandestina Borba (Lotta), condannati dal Tribunale speciale del regime; e dall’altro la foiba che è diventata il simbolo delle migliaia di uccisioni di italiani compiute nel settembre del 1943 in Istria e poi, all’indomani della guerra, nelle zone controllate dalle forze di Tito. Un comune omaggio che sin qui non era mai stato possibile.

All’intera storia del Novecento questi luoghi in realtà rimandano: si sono scontrati nella Venezia Giulia, scriveva nel 1947 il grande storico di origine istriana Ernesto Sestan, quei «nazionalismi esasperati» che hanno «reso così feroce l’Europa contemporanea». Ed evocava poi la dissoluzione degli imperi all’indomani della Grande guerra, con il sorgere di nuovi Stati e con l’assegnazione all’Italia di aree ampiamente popolate anche da popolazioni slovene e croate.

E con il delinearsi di un “fascismo di confine” aggressivo e oltranzista che entra in scena proprio con l’incendio del Narodni Dom, nel luglio del 1920: un incendio che lo scrittore Boris Pahor ha vissuto da bambino ed ha evocato in un racconto intenso, Il rogo nel porto (e a Pahor, che ha conosciuto anche i campi di concentramento nazisti, i presidenti italiano e sloveno attribuiranno in quest’occasione alte onorificenze).

Il fascismo porterà poi a fondo una «italianizzazione forzata» che ancora Sestan evocava: «Sparivano i giornali slavi, i libri slavi, i nomi slavi delle località; si sopprimevano le istituzioni economiche slave, le scuole in lingua slava…». Diventava impossibile ogni opposizione legale e prendevano corpo le scelte della clandestinità. In quel quadro si colloca l’azione dei quattro giovani fucilati a Basovizza nel 1930, condannati per un attentato al giornale locale del fascismo che ebbe anche una vittima: nella memoria slovena sono i primi eroi della resistenza al regime.

Irrompono poi la seconda guerra mondiale e l’occupazione nazista e fascista della Jugoslavia, che estende anche a quest’area i tratti della guerra di sterminio condotta a Est dalle armate di Hitler. E dopo il settembre del 1943 la Venezia Giulia diventa Zona di Operazioni Alto Adriatico, alle dirette dipendenze di Berlino: entra in funzione qui, nella Risiera di San Sabba, l’unico forno crematorio su suolo italiano.

Irrompe in questo quadro la politica di Tito volta ad annettere l’intera Venezia Giulia (e ad emarginare progressivamente e brutalmente le componenti non comuniste dello stesso fronte antifascista, in sintonia con le pratiche staliniane). Si delinea così il dopoguerra jugoslavo: con l’eliminazione non solo dei fascisti e dei collaborazionisti sloveni e croati ma anche di chi si opponeva a quel progetto di annessione e a quella politica.

Una politica che colpisce ferocemente la popolazione italiana nei “40 giorni” del controllo di Tito sulla Venezia Giulia: con le migliaia di vittime di cui la foiba di Basovizza è simbolo e con un clima di terrore che apre la via a un esodo colossale. A sofferenze e traumi profondissimi: ce ne testimoniano gli intensi libri di Fulvio Tomizza (mio grande amico), Marisa Madieri, Anna Maria Mori, Nelida Milani, Enzo Bettiza e altri ancora.

Questo — anche questo — è stato il Novecento in questa terra, con lacerazioni che è difficile quanto necessario comprendere nel loro insieme. È stato possibile iniziare a farlo solo dopo la fine della guerra fredda e il dissolversi della Jugoslavia: un percorso non sempre facile, segnato dal crescente confronto fra gli storici (si collocò su questa via la commissione italo-slovena istituita dai due governi nel 1993) e dal più difficile maturare di iniziative pubbliche condivise.

Esso ebbe un momento importante a Trieste il 13 luglio di dieci anni fa con il Concerto dell’amicizia diretto da Riccardo Muti alla presenza del presidente Napolitano e dei presidenti di Slovenia e Croazia, che in quell’occasione resero omaggio insieme al Narodni Dom e al monumento all’esodo italiano.

Quel percorso è sembrato quasi appannarsi poi, non solo in quest’area. E in molte parti d’Europa (non solo nell’Ungheria di Orbán) sono riaffiorate al tempo stesso memorie intossicate e nazionalistiche: memorie che credevamo sepolte grazie a quel progressivo superamento delle lacerazioni e dei traumi del passato che aveva accompagnato da sempre la costruzione dell’Europa. Che ne era stato cemento fondativo.

Si pensi all’immagine di Mitterand e Kohl che si tengono per mano nel Cimitero di Verdun, nel 1984: un simbolo potente di quella “educazione civile europea” che sta al fondo anche della visita a Trieste dei Presidenti Mattarella e Pahor.

Un segnale preziosissimo, e una lezione per tutti: negli ultimi anni infatti è sembrato spesso debole e inadeguato l’impegno intellettuale volto a contrastare letture divisive del passato e a far crescere il confronto e il dialogo fra differenti memorie e vissuti. E a tradurre quel dialogo nella costruzione e nell’insegnamento di una storia realmente europea. È una via da riprendere con decisione: dobbiamo essere molto grati al presidente Mattarella per avercelo ricordato nel modo più alto.

Sul confine dove il fascismo si impossessò dell’ italianità

Attorno a Fiume si concentrava una parte considerevole dell’azione politica fascista e combattentistica del momento, ma anche si tessevano reti di rapporti che unirono il fascismo e il nazionalismo, specie nell’area nord-orientale del Paese (ma non solo). A Fiume, come è ben noto, si fondava – o meglio si raffinava e si definiva ulteriormente – una nuova simbologia e un nuovo linguaggio della politica, un linguaggio evocatore, teatrale e capace di incidere nel profondo nell’immaginario e nella politica del successivo dopoguerra.

Fiume non fu la “festa” di una rivoluzione che avrebbe potuto essere sia di destra sia di sinistra, e non è stata neppure una palestra di democrazia; fu, invece, un luogo di incontro e di sintesi di forze eversive che desideravano opporsi all’ordine liberale e rifiutare l’ordine di Versailles, costruendo una piattaforma per una rivoluzione nazionalista che seppe attirare a sé esponenti diversi, e provenienti da tutta Europa, che cercavano un’alternativa politica all’ordine che si stava delineando in quei mesi, e anche alla possibilità rivoluzionaria aperta dalla rivoluzione bolscevica.

Il declinare dell’esperienza fiumana, e della sua importanza per quell’amalgama di forze che intorno all’impresa si stringeva, cominciò a diventare evidente dall’estate del 1920, soprattutto perché altri problemi si facevano più urgenti nella politica italiana, e l’avvicinarsi delle elezioni amministrative rendeva evidente l’esigenza di una riorganizzazione del campo antisocialista.

Le prime prove dell’azione diretta fascista e dell’uso della violenza, dopo la fase di risacca all’indomani delle elezioni del 1919, avvennero però non casualmente nelle aree più mobilitate dalla polemica contro la “vittoria mutilata”, nel Nord-Est del Paese. Fu a Trieste, in modo particolare, che si verificarono i primi incidenti consistenti, contro l’Hotel Balkan, sede delle associazioni slovene in città, che sembravano compendiare due elementi centrali della piattaforma politica di molti gruppi fascisti, nazionalisti e reazionari: l’antisocialismo e la difesa oltranzista dell’italianità, in questo caso a danno delle minoranze nazionali. I disordini si replicarono poi in una Venezia che si era ampiamente mobilitata per Fiume, in chiave antisocialista e rivelano una notevole disponibilità di armi nelle mani dei fascisti locali.

La centralità del confine orientale e di Trieste come luogo simbolo dell’italianità fascista, fu evidente nella frequenza dei richiami alla città nei discorsi del 1920, ma anche nell’importanza del discorso che Mussolini vi svolgeva, nel cinquantesimo della breccia di Porta Pia, il 20 settembre 1920, pochi giorni dopo il primo anniversario della presa di Fiume (e nel mezzo delle trattative per la definizione del confine orientale con il Trattato di Rapallo).

In questo discorso, Mussolini rivendicava con forza che «Primo pilastro fondamentale dell’azione fascista è l’italianità», un’italianità aggressivamente schierata contro «tribù più o meno abbaianti lingue incomprensibili» ai confini del Paese; rivendicava il suo essere antidemagogico e pragmatico, mettendosi sulla linea della modernità già tracciata con forza dai futuristi, e accolta, almeno in parte, dai nazionalisti

. Trieste, si ribadiva, era insomma un baluardo dei confini dell’italianità, ma anche il luogo da cui ribadire la forza di quell’italianità, per fare il punto sugli obiettivi a breve termine e di lungo periodo del fascismo, rivendicando – nell’immediato – l’azione dannunziana, anche se, di fatto, si stava contribuendo a depotenziarla.

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